Cultura e Spettacoli

Perché i liberali devono applaudire Papa Francesco

L'anti individualismo di Bergoglio non è l'antitesi alla "società aperta". E l'insistenza sui valori comuni lo avvicina ad Alexis de Tocqueville

Perché i liberali devono applaudire Papa Francesco

Papa Bergoglio non piace al gruppo dei quattro gatti liberali di cui faccio parte; piace poco, in genere, agli intellettuali di destra e di sinistra che incontro nei luoghi di lavoro. La sua crociata contro l'individualismo, il consumismo, la globalizzazione, il relativismo culturale, le sue «pose» populiste da parroco di campagna del Sud America (qualcuno parla di «peronismo»), la sua semplicità che sembra neutralizzare il «carisma d'ufficio», la sua capacità di mandare in visibilio le masse con parole semplici e gesti spontanei, le sue «incertezze» etico-teologiche («chi sono io per giudicare?») fanno arricciare il naso anche a molti credenti, abituati a ben diversi «stili» pontifici.

A me tutto questo piace, in primo luogo, per una insopprimibile e radicata simpatia per le forme espressive - politiche e sociali - che sanno di qualunquismo (e di populismo), in secondo luogo, per una congenita allergia all'aria di sufficienza verso le «masse» di solito accusate di ogni volgarità e di ogni turpitudine, come se fossero le masse ad aver governato finora il mondo e non le élites politiche e intellettuali, che ora le esaltano e le mobilitano, ora ne prendono le distanze, levando alti gemiti al cielo: o tempora, o mores! In fondo, «questa è la democrazia bellezza!»: sono le «folle» di individui, elettori e consumatori, che decidono ormai il destino delle comunità politiche (e per fortuna, giacché se fossero stati gli intellettuali e non loro ad avere la maggioranza nel 1948 nessuno ci avrebbe evitato il destino delle democrazie popolari).

Sì, Papa Bergoglio tuona contro l'individualismo cieco e irresponsabile, richiama l'attenzione sulle vittime dei cicli economici, ricorda le schiere dei poveri che bussano alle nostre porte e alle quali non diamo ascolto, mette in guardia contro la violenza degli Stati, i fanatismi religiosi, invita al dialogo e alla tolleranza. Si capisce bene come le sue prediche possano infastidire la «società degli indifferenti», si comprende meno come possano apparire il segno di una lontananza incolmabile dall'universo liberale. Francesco, nei suoi scritti, non sembra certo un discepolo di Locke e di Montesquieu (peraltro cristiani entrambi) ma l'anti-individualismo non è l'antitesi della «società aperta».

In un Paese come il nostro, dove si sono perduti, con la morte della patria, i legami profondi che tenevano unite le generazioni, dove l'idea di Stato nazionale è in crisi e l'Inno di Mameli commuove soltanto durante le partite di calcio, si è smarrito il senso delle «connessioni sociali», dei «valori comuni» che tanto preoccupavano i grandi liberali dell'Ottocento. A partire dal più grande di tutti, Alexis de Tocqueville, che in La democrazia in America registrava, spaventato, i progressi di una democrazia individualista che avrebbe azzerato, col tempo, ogni idea di solidarietà. «L'individualismo - scriveva - spinge ogni singolo cittadino ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi creato una piccola società per conto proprio, abbandona volentieri la grande società a se stessa.

L'individualismo non inaridisce sulle prime che la sorgente delle virtù pubbliche; alla lunga, però, attacca e distrugge tutte le altre».

Quando Papa Bergoglio ammonisce che il denaro non è tutto, non si iscrive certo alla «scuola del liberalismo», ma neppure a quella dei suoi avversari ideologici più accaniti. «Riconoscere che ogni persona è degna della nostra dedizione non per il suo aspetto fisico, per le sue capacità, per il suo linguaggio, per la sua mentalità o per le soddisfazioni che ci può offrire, ma perché è opera di Dio, sua creatura». Sono parole che avrebbero sottoscritto Kant e Tocqueville.

Diverso, invece, e più complesso è il discorso sulla filosofia sociale ed economica di Francesco, anticapitalista e fondata su un pauperismo tanto ingenuo quanto toccante («l'immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede»). Nell'enciclica Evangelii Gaudium si legge che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all'autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L'inequità è la radice dei mali sociali». E che «l'adorazione dell'antico vitello d'oro ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano». Sono parole che rivelano l'incapacità del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa - per il Papa, deposito di ogni verità sul mondo moderno - di comprendere le vere «cause della ricchezza e della povertà delle nazioni».

In realtà, con buona pace di Karl Marx, dei teologi vaticani, dei vescovi brasiliani e filippini, l'economia non è il solo fattore di trasformazione del mondo contemporaneo, e il capitalismo non è il peggior modo di produrre e distribuire i beni della terra (ce ne sono altri, quelli totalitari, che si sono mostrati assai più disumani). Lo sanno bene i partiti cristiani che, al governo, o hanno fatto le stesse cose dei liberali (tranne in campo bioetico) o hanno seguito fumose e inconsistenti «terze vie». È giusto ribadire che l'amore per il prossimo non «dovrebbe intendersi come una somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso, il che potrebbe costituire una sorta di “carità à la carte”, una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare la propria coscienza», ma occorre non dimenticare che i vari sistemi economici - e quello capitalista in primis - funzionano in presenza di istituzioni politiche, giuridiche e culturali stabili e ben congegnate. A fondarle e a consolidarle sono i popoli maturi attraverso i meccanismi della partecipazione democratica, nella consapevolezza che, a guastare la festa comunitaria e solidaristica, non sono solo Mammona e l'auri sacra fames, ma un groviglio di interessi, di ambizioni di classi, di individui, di partiti, di sindacati, che non esiterebbero a stravolgere la natura del mercato per conservare i propri privilegi.

Il potere economico è soltanto una forma di potere, Bergoglio e la Chiesa rischiano di dimenticare le altre.

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