Cultura e Spettacoli

Quel piccolo teppista che infilzava i tori con la forza dello spirito

Gracile e poverissimo, iniziò a toreare nelle campagne andaluse Divenne il numero 1 delle corride. E a ferirlo a morte fu l'amore

«Andate a vederlo subito, adesso. Dopo sarà troppo tardi, sarà già morto» disse Guerrita nel 1910 dopo aver visto toreare il diciottenne Juan Belmonte. Guerrita aveva per soprannome «il califfo di Cordova» ed era stato a fine Ottocento il più famoso torero spagnolo, troppo superbo per essere amato, troppo abile, imponente nel fisico, supremamente elegante per non essere ammirato.

Il ragazzo Juan era il suo opposto: piccolo, gracile, grande di testa, corto di busto, i suoi detrattori lo avevano ribattezzato «Rigoletto». Però faceva una cosa che fino ad allora non aveva mai fatto nessuno: non schivava il toro, ma lo dominava usando se stesso come centro di gravità, immobile sulle gambe e guidando l'animale con il solo gioco di braccia, standogli vicino come mai prima era avvenuto e sovvertendo così la regola che voleva toro e torero come entità distinte e contrapposte, con un proprio terreno d'azione. Detto in altri termini, ovvero con le sue parole, «esisteva a quei tempi una complicata matematica a proposito dei territori del toro e di quelli del torero, che a mio parere era del tutto superflua. Il toro non ha territori, perché non è un essere ragionevole, e non c'è registro della Proprietà che li possa definire. Tutti i territori sono del torero, l'unico essere intelligente a entrare in gioco che, come naturale, si prende tutto».

Alla fisicità e agilità di Guerrita, Lagartijo, Frasuelo, che nella seconda metà dell'Ottocento aveva codificato «l'arte del toreo» in senso corporativo, e dei loro epigoni del primo Novecento, Bombita, Machaquito, El Gallo, Juan Belmonte opponeva una sorta di toreo come esercizio spirituale: «Se nel toreo le qualità fisiche, e non quelle spirituali, fossero l'elemento fondamentale, io non avrei mai avuto successo». È con Belmonte che l'estetica della corrida prende veramente forma, diviene espressione plastica di un repertorio di suertes , fasi, codificate, ottenuta adattando a esse il movimento imprevedibile del toro. La corrida classica finisce con lui, la corrida moderna nasce da lui.

La gracilità di Belmonte era figlia della povertà, dell'ozio e della disperazione. Primo di nove fratelli, era un malange , un guastafeste del quartiere popolare di Triaca, a Siviglia, aveva smesso di andare a scuola a otto anni, era già un teppista a undici, orfano di madre, aveva un ambulante fallito come padre. Anche nel mondo taurino era entrato dalla porta di servizio. Non era un aficionado delle arene, non andava alle capeas , le corride dei dilettanti, dove nei tentaderos in cui si selezionavano i tori si poteva essere autorizzati a qualche mossa con la cappa. Juan andava a toreare nelle campagne andaluse di Tablada, lì dove il Guadalquivir rimuove gli umori della terra e fa nascere i pascoli per i tori bravi. Di notte, con un gruppo di piccoli malange come lui guadava il fiume, la muleta stretta ai fianchi a mo' di costume. Di là dal fiume c'erano i tori e lui e gli altri andavano a toreare in mezzo a loro, nudi sotto la luna. Si avvicinavano al branco, isolavano quello che sembrava il toro migliore, lo chiamavano, lo incitavano, lo insultavano finché, infuriato, quello caricava, nero come la notte contro quei corpi bianchi sotto il raggio della luna. In mancanza di questa, quando il pascolo era immerso nel buio e nemmeno i guardiani e la Guardia Civil osavano entrarvi, si portavano dietro due lanterne al carburo e il gioco stava nel restare il più possibile attaccati al toro, perché se l'animale entrava nella zona d'ombra e spariva, il ritrovarselo di colpo in quella illuminata era più rischioso, perché il piccolo torero dalla luce rimaneva abbagliato. «In tali condizioni toreare aveva maggiori esigenze e credo fermamente di dovere a quel cumulo di difficoltà molte caratteristiche del mio stile».

Su Juan Belmonte, oltre a migliaia di articoli, sono uscite almeno una ventina di biografie, ma la migliore resta quella che a metà degli anni Trenta scrisse Manuel Chavez Nogales e che adesso appare per la prima volta in italiano: Juan Belmonte matador de toros (Neri Pozza, pagg. 347, euro 20, traduzione di Hado Lyria, introduzione di Mario Cicala). Nogales era allora un giornalista di punta, colto, brillante, nemmeno particolarmente interessato al mondo della corrida, ma perfettamente consapevole di quanto quel mondo fosse l'incarnazione di una certa Spagna. La tauromachia era allora talmente presente nei pensieri, nel gergo, nella conversazione, persino nella retorica politica che alla Costituente repubblicana il deputato Prieto si era rivolto al collega avversario Oscario così: «Non pensavo che questo pomeriggio avremmo toreato, vostra signoria». Qualche anno prima, in una seduta parlamentare, Primo de Rivera aveva rimproverato un deputato con queste parole: «Voi, caro amico, uscite dal burladero (lo spazio inventato proprio da Belmonte, dove i toreri potevano trovare riparo, ndr ) fate mezza veronica e poi vi nascondete»... Per la Spagna i tori sono sempre stati un'ossessione e i pittori, gli scultori, i poeti spagnoli raramente sono sfuggiti alla sorte comune a molti loro connazionali, quella di essere, almeno potenzialmente, toreri. Da Goya a Zuluaga a Picasso, da de Alarcón a García Lorca, l'elenco è imponente.

Di questa ossessione trasversale, popolare e colta, Belmonte fu la perfetta incarnazione e nel frequentarlo per poi raccontarne la vita, Nogales se ne rese subito conto. Non era solo un torero, Belmonte, ma un tipo umano, un emblema, un «pícaro di genio», come nota Mario Cicala nella sua bella introduzione. Era amico di Ramón María del Valle Inclán e di Ramón Pérez de Ayala, la crema colta del suo tempo, era il bambino senza nemmeno la licenza elementare che per descrivere l'andare e venire del toro intorno alla muleta citava «l'aria soave di lenti giri» di cui parlava il poeta Rubén Darío o telefonava a un amico madrileno «per commentare con lui una frase di d'Annunzio che aveva appena letto: “Il pericolo è l'asse portante di una vita sublime”»... In più, il successo e i soldi non gli avevano dato alla testa. Sapeva da dove veniva, conosceva i bisogni della povera gente e questo per il liberale Nogales, che quando scoppia la Guerra Civile deve lasciare la Spagna perché rischia di essere «perfettamente fucilabile» da entrambi gli schieramenti, era un ulteriore titolo di merito, l'idea di una Spagna diversa, più umana, più giusta.

Belmonte sopravvisse ai tori e alle corride, ben 675, pur con un numero imprecisato di ferite gravissime e fino a quindici incidenti di sangue in una sola corrida. Si ritirò nel 1935, a poco più di quarant'anni e durante il franchismo fu più popolare dello stesso Franco. Nel 1961, alla notizia che il suo amico Ernest Hemingway si era ucciso, commentò: «Ben fatto». Un anno dopo, nella sua casa di Siviglia lontana pochi isolati dalla Real Maestranza dove aveva avuto i suoi più grandi trionfi, fece lo stesso, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Si era innamorato di una giovanissima torera cavallerizza, ma era stato respinto.

A settan'anni, morire d'amore era l'unico modo per morire giovani.

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