Cultura e Spettacoli

"Pietroburgo" di Belyj? È la Russia di Putin

Il romanzo capolavoro del simbolismo uscì 100 anni fa. Ma è ancora utilissimo per comprendere l'animo di un popolo

Uno scorcio di Pietroburgo all'inizio del Novecento
Uno scorcio di Pietroburgo all'inizio del Novecento

Cent'anni e non li dimostra. Pietroburgo di Andrej Belyj è stato pubblicato per la prima volta giusto un secolo fa e oggi, ripresentato da Adelphi con la cura editoriale che si può immaginare (pagg. 384, euro 22 - perfetta anche la copertina), continua a dire qualcosa che ci riguarda. Come scrisse Nicolás Gómez Dávila, «appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte».

Una definizione ineccepibile, pensata per i singoli lettori ma in questo caso valida per un intero continente. L'Europa avrebbe dovuto leggere l'inquietante romanzo di Belyj appena uscito, e forse si sarebbe risparmiata la Grande Guerra che fece collassare lo zarismo e sorgere il comunismo che tanta morte portò nel mondo, e dovrebbe leggerlo oggi, e forse si risparmierebbe le sanzioni contro Putin e il freddo siberiano che quest'inverno minaccia di colpirci tutti, coi rubinetti del gas russo chiusi e le bollette alle stelle. La narrativa, per quanto di tenore simbolista e avanguardista come questa, comunica la verità meglio della saggistica e la verità di Pietroburgo è la seguente: la Russia non è del tutto Europa ma non è assolutamente Asia. Ed è sbagliato, quindi pericoloso, sia forzarla a europeizzarsi completamente sia spingerla fra le braccia del continente giallo.

La vicenda si svolge nel 1905, l'anno di una rivoluzione che fu prova generale della rivoluzione d'ottobre, e come questa esplose proprio nella metropoli più settentrionale del mondo, fondata da Pietro il Grande che le diede il nome e architettata da architetti italiani (o svizzero-italiani). Molta acqua è passata sotto i ponti della Neva e non circolano più carrozze, né signori col cappello a cilindro, sulla Prospettiva Nevskij, eppure quasi in ogni pagina del cupo romanzo si percepisce la stessa paura che oggi attanaglia la Russia: la paura geopolitica dell'altro. Si evocano continuamente i mongoli, i cinesi, i giapponesi, presenze minacciose che attraverso invasioni e disfatte entrano fin dentro il sangue russo. Uno dei protagonisti, l'aristocratico funzionario Apollon Apollonovic Ableuchov, teme gli operai, e ne ha ben donde se pensiamo ai soviet che nel frattempo si stavano organizzando. E teme il figlio Nikolaj, anche in questo caso con ragione da vendere. Ma soprattutto sembra temere le infiltrazioni asiatiche ed è un pensiero non tanto dell'autore (politicamente inafferrabile), quanto della società russa del tempo e di ogni tempo.

Una sindrome dell'assedio che ha le sue brave motivazioni storiche, dai saccheggi di Mosca compiuti dalla tartara Orda d'Oro alla sconfitta nella guerra russo-giapponese fino alle perenni turbolenze della frontiera caucasica (Cecenia e dintorni). È una costante del carattere russo che gli eurocrati di Bruxelles ignorano grassamente, così come ignorano che «la madre delle città russe è Kiev» (affermazione, anzi, constatazione, campeggiante nella prima pagina del romanzo). Non Mosca né tantomeno San Pietroburgo, città relativamente moderna, ma proprio Kiev. Se avessero letto Belyj il quale, sebbene da noi sia quasi sconosciuto può considerarsi l'anello di congiunzione fra Dostoevskij e Nabokov, suo grande estimatore, avrebbero evitato di attirare l'Ucraina nell'orbita Ue mettendo Putin all'angolo, posizione scomoda che lo rende più nervoso e quindi più temibile. Il politologo Carlo Pelanda ha scritto qualche giorno fa che «la Russia sta cercando di farsi la propria regione economica, ricompattando gli stati dell'ex-Urss, ma la frizione con America e Ue ne ha aumentato la dipendenza dalla Cina, che potrà mangiarsi una Russia economicamente debole».

In cent'anni davvero non è cambiato niente, siamo sempre alle solite: la paura, che non è la miglior consigliera, continua a determinare le relazioni internazionali e a dominare le vite umane. Apollon Apollonovic oltre che l'Asia, oltre che gli operai, oltre che i ragazzacci antigovernativi, oltre che i terroristi nichilisti, oltre che il figlio debosciato e serpe-in-seno, teme il freddo, sia perché da giovane stava per morire assiderato, sia perché lassù l'inverno è una cosa seria, fa ghiacciare fiumi profondi venti metri e precipitare la colonnina del mercurio a meno dieci per mesi. È tutto un brivido, nonostante i colli di pelliccia e i riscaldamenti accesi, Pietroburgo : «La brina gelata irrorava le strade e le prospettive, i marciapiedi e i tetti. Irrorava i passanti, prodigando raffreddori; infreddature e influenze si insinuavano...».

Sarà visionario, apocalittico e morboso, Belyj, ma leggendolo si capisce che noi occidentali la Russia non siamo in grado di capirla, meglio pertanto non impicciarsi delle sue questioni interne (l'Ucraina, ripeto, è una questione interna).

Conviene prenderla sul serio, la letteratura.

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