Cultura e Spettacoli

Poche, efficaci, eterne. Le ultime parole famose che restano nel marmo

Il latino sulle lapidi (che qualcuno vorrebbe vietare) è sintetico e scultoreo. Perfetto per raccontare le emozioni e la memoria

Poche, efficaci, eterne. Le ultime parole famose che restano nel marmo

«Sulle tombe vietato il latino», titolavamo sulle pagine del Giornale, qualche giorno fa, in una corrispondenza da Albignasego, paesone del padovano. La burocrazia sloggia dalle lapidi del locale cimitero le epigrafi in lingua straniera, latino compreso. «Regolamento vecchio», argomentano le autorità del posto «la nostra è solo una conferma». Sarà. Ma il diktat avrebbe acceso le polveri dell'iracondo Ugo Foscolo, che da queste parti, sugli splendidi colli Euganei, soggiornò nel 1796, quando i suoi furori libertari destarono sospetti nella retrograda Venezia. In testa ai suoi Sepolcri (1806) vergò un detto ciceroniano, estrapolato dalla venerande XII Tavole: Deorum manium iura sacra sunto, «Siano sanciti i diritti degli dei Mani». I Manes erano divinità latine dell'oltretomba, identificate con le anime dei trapassati, aleggianti presso le tombe. Tra le prerogative dei Mani - si presume - c'è quella di esprimersi nella loro lingua, il latino.
Forse fremono anche le ceneri di quel tale Albinius, proprietario di terreni, che aggiunse alla sua firma il suffisso di appartenenza -aticus (Albiniaticus, podere di Albinio) gettando così le fondamenta del toponimo moderno, Albignasego. Se invece che a Yonville fosse sepolta qui, alle porte di Padova, Emma Bovary, la Madame di Flaubert, uccisa dai dispiaceri di cuore e dall'arsenico, non avrebbe sulla sua lastra l'epitaffio classico: Sta viator, amabilem conjugem calcas, «Fermo, passante, calpesti una moglie degna d'essere amata!», faticosamente commissionato da Charles, l'incolore, sfortunato consorte.

Fosse per i burocrati di Albignasego, pure la lapide di Antonio Gramsci sarebbe spoglia delle parole che ispirarono la penna di Pasolini: Cinera Antonii Gramscii (anche se lo scalpellino avrebbe dovuto incidere un più corretto cineres).
Sintetica e scultorea, la lingua di Roma è una macchina perfetta di emozioni per le scritte funerarie e commemorative. Ne hanno beneficiato, in età moderna, eroi dell'arte e della cultura. Ille hic est Raphael, «Qui c'è quel famoso Raffaello», leggiamo sulla lapide del pittore nel Pantheon di Roma, con ciò che segue «da cui, quando era in vita, Madre Natura temette d'essere vinta e, alla sua morte, di morire anch'essa con lui». Il mago della gravità e della luce, Isaac Newton, riposa nella Westmister Abbey sotto l'epitaffio Hic depositum est quod mortale fuit Isaaci Newtoni, «Qui giace ciò che fu mortale di Isaac Newton»: le sue intuizioni sono invece imperiture, come il cosmo che decifravano.

La vita si abbarbica al gelo della pietra tombale. Un'offerta votiva, una lacrima, un fiore fresco, una luce (una favilla strappata al sole per rischiarare la tenebra sotterranea, secondo l'intendimento foscoliano) danno concretezza alla passione della memoria, al chiodo fisso del rimpianto. Per una di quelle meravigliose e arcane intuizioni poetiche che sprizzano dalla fantasia popolare, la lapide diventa personaggio, e parla. Interpella il visitatore. «Amico» leggiamo nell'epitaffio per i 300 spartani caduti alle Termopili, attribuito da Erodoto al poeta lirico Simonide «riferisci a Sparta che noi siamo stesi qui, obbedendo ai suoi decreti». I poeti classici s'impadronirono del commovente meccanismo, confezionando scritte fittizie (gli epigrammi tombali) impastati di pianto. «Ehi, passante! - scrive Asclepiade, epigrammista del IV secolo a.C. - Hai fretta, si vede. Ma sta un po' a sentire/ i dispiaceri di Botri. Ci puoi giurare, sono immensi./ È un vecchio, Botri. Ottant'anni. Qui ha seppellito un figlio,/ un ragazzo, ma già una testa, da come ragionava, e mani d'oro./ Povero genitore. E povero anche tu, figliolo di quel Botri,/ per tutto il buono che non hai avuto, quando te ne sei andato».
Perfino un cantore crudo e sarcastico come il latino Marziale (I secolo d.C.) s'intenerisce quando detta la scritta sulla tomba di Eròtion, una servetta, sepolta nel suo fazzoletto di terra, a Roma. «Qui è addormentata Eròtion. Un'ombra prematura./ Il sesto inverno l'ha spazzata via. Un crimine fatale./ Dopo di me, un altro avrà il mio orticello. Chiunque tu sia,/ anno dopo anno, regala un sacro fiore a questa piccolina./ Vedrai che starà calda la tua casa, e in pace la famiglia:/ bagnerai di pianto solo questa lastra, qui, nell'orto».

I politici sanno essere più pragmatici. Per il suo monumento funebre, il dittatore Silla escogitò un'epigrafe che ha la grana imperiosa e didascalica del programma, buono per tutti i tempi: «Non c'è amico che mi abbia fatto un favore, né nemico un torto, che io non abbia ripagato in pieno». La monumentale raccolta delle epigrafi funerarie latine è un libro aperto, non sulla morte, ma sulla vita a Roma. Negozianti, attori, gladiatori, matrone, liberti ci hanno lasciato un diario collettivo vibrante come un'Antologia di Spoon River, capolavoro dell'americano Edgar Lee Masters. Con sfumature minacciose e patetiche, come nelle parole di un tale, Tullius Hesper, che sul suo loculo volle scritto: «Se qualcuno tocca le mie ossa qui dentro e le fa sparire, prego che viva per sempre con dolori fisici e che, una volta morto, venga rifiutato anche dall'inferno».

Gente così non le avrebbe mandate a dire a chi, con i regolamenti, mette i bastoni tra le ruote ai Manes.

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