Cultura e Spettacoli

Preistoria, furono i Neanderthal romani a inventare riuso e riciclaggio

Nei pressi della Capitale trovati resti di utensili risalenti a 300mila anni fa, realizzati in pietra e ossa di mammut. Molti indizi dimostrano che quando quegli oggetti si rompevano venivano «riprogettati» per funzioni diverse da quelle originarie. Una pratica che presuppone capacità intellettiva e... una certa pigrizia

Per chi pensa che il riciclaggio sia una pratica moderna, arriva una smentita dalla preistoria. Anzi, dalla civiltà umana che fu spazzata via dall'homo sapiens: quella dei nostri cugini Neanderthal. Secondo gli studi internazionali cui ha partecipato anche Giovanni Boschian, docente di antropologia dell'Università di Pisa, i nostri antenati del Paleolitico erano soliti riciclare gli oggetti di uso comune nella vita quotidiana. Le prove di questa abitudine sono state presentate a Tel Aviv a un convegno che ha visto la partecipazione di cinquanta antropologi e paleontologi da tutto il mondo. «Abbiamo indizi che già 300.000 anni fa l'uomo di Neanderthal avesse la consuetudine di riutilizzare utensili precedentemente scartati - spiega Boschian -. Gli uomini davano a questi oggetti una nuova forma e un nuovo impiego, per questo possono essere considerati gli iniziatori della pratica del riciclaggio».
Il professor Boschian ha condotto le sue ricerche a Castel di Guido, un sito archeologico nei pressi di Roma, dove sono stati trovati resti risalenti a circa 320-270.000 anni fa. La peculiarità di questo luogo è la presenza di attrezzi - detti bifacciali per la loro forma - non solo in pietra, ma anche in osso di elefante. Il sito, infatti, era ricco di pozze d'acqua usate come abbeveratoi naturali da elefanti e altre specie, incluso l'uomo: una situazione ideale per gli umani che, comunemente dediti allo sciacallaggio, prelevavano cibo dalle carcasse degli elefanti già morti, o che forse loro stessi avevano finito. «L'uso di questa materia prima, decisamente raro, era dovuto alla scarsezza di materie prime come la selce e altre pietre nella zona - dice Boschian -. Per realizzarli venivano utilizzate, oltre alla pietra, grosse schegge di osso di elefante, derivanti dall'estrazione del midollo, complemento alimentare fondamentale nella dieta dell'epoca. Già questa può essere considerata una forma iniziale di riciclaggio, ma dallo studio di questi oggetti si scopre che a Castel di Guido essi venivano spesso riutilizzati a distanza di tempo, o che una volta rotti erano riciclati per altri scopi».
L'uso di carcasse di animali uccisi da cause naturali come siccità o predazione da parte di altri animali era relativamente comune nelle società del Paleolitico, sin da almeno 2,5 milioni di anni fa, per procurarsi cibo come carne, grasso e midollo. Tuttavia quest'aspetto non viene normalmente considerato come vero e proprio riciclaggio, ma semplicemente un modo di procurarsi cibo. E anche il riuso di utensili, per mezzo di successive affilature, non è considerato strettamente riciclaggio.
«Il riciclo vero e proprio è inteso come uso per scopi completamente nuovi di oggetti scartati dopo una precedente utilizzazione» specifica Boschian. Insomma, una pratica che presuppone facoltà intellettive capaci di produrre una «ripensamento» dell'uso dell'oggetto che in certi casi comportava la modifica della forma iniziale dell'oggetto «con un'operazione - continua lo studioso - che implica attitudini mentali avanzate, in particolare la capacità di previsione e la progettualità, ravvisabili in alcune tecniche di lavorazione che sembrano esser state mirate a ottenere oggetti che in futuro potessero essere riutilizzati». Un altro aspetto particolarmente interessante è la lettura sociologica che si può dare questo fenomeno: «Il riciclaggio poteva essere dovuto sia alla scarsezza di materie prime, sia alla generale "pigrizia" degli umani, come dimostrato dal fatto che se ne rinvengano prove anche in altri siti del Paleolitico in cui le materie prime non scarseggiano.

Tutto questo testimonia un'evoluzione delle capacità mentali dell'uomo, ma anche il permanere di certi suoi peculiari atteggiamenti nei confronti della vita».

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