Cultura e Spettacoli

Quel dibattito "fascistissimo" sulle istituzioni

Un saggio di Francesco Perfetti ricostruisce i passaggi per dare legittimità al regime

Il problema cardine di ogni sistema politico, sia esso democratico o tirannico, risiede nella sua legittimità, nel senso che esso dura finché i princìpi generali che presiedono alla sua vita sono considerati giusti dalla stragrande maggioranza della popolazione. Un esempio lampante di questo «teorema» ci è offerto dalla crisi politica italiana all'indomani della Prima guerra mondiale, quando lo Stato liberale si dimostrò privo di difese perché la sua classe dirigente, essendo delegittimata, non ebbe la forza e l'autorevolezza per governare. La delegittimazione dell'assetto liberal-democratico spiega la debolezza dei suoi governi, che risultarono incapaci di reprimere il disordine dovuto alle crescenti violenze perpetrate da destra e da sinistra. La causa politico-istituzionale di tale inadeguatezza risiedeva nel fallito innesto delle istanze democratiche all'interno del regime liberale, nel fatto che la democrazia non fu in grado di fornire al liberalismo un nuovo e saldo consenso popolare.

Giunto al potere, il fascismo rispose a questa domanda di stabilità con un progressivo rafforzamento del potere esecutivo fino all'instaurazione - a partire dal 1925-27 - della dittatura totalitaria e la soppressione di ogni libertà. Il problema di conferire stabilità al nuovo regime si ripropose però anche negli anni del pieno consenso, come è dimostrato dai vari tentativi di riformare l'assetto istituzionale espresso dallo Statuto albertino. Si trattava di far convivere la vecchia legittimità monarchica con la nuova legittimità fascista, al fine di dare una maggiore saldezza all'intero sistema. Di qui le varie e controverse proposte del monocameralismo e del bicameralismo, il dilemma del Senato di nomina regia (eliminarlo o no?), le modifiche dei meccanismi elettorali, la riduzione del numero dei parlamentari. In questo dibattito si cimentarono, pur a titolo diverso, i maggiori intellettuali del regime: Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Gioacchino Volpe, Enrico Corradini, Giuseppe Bottai, Camillo Pellizzi, solo per ricordarne alcuni.

Ricostruisce ora l'insieme di questi passaggi Francesco Perfetti, Fascismo e riforme istituzionali (Le Lettere, pagg. 184, euro 20). Il fascismo, come abbiamo detto, impose fin dall'inizio un rafforzamento del potere esecutivo, dapprima con la riforma elettorale maggioritaria della legge Acerbo e poi, soprattutto, con le «leggi fascistissime» volte a conferire al capo del governo poteri non discutibili e modificabili dal Parlamento. Si voleva in tal modo superare il problema democratico della formazione aritmetica delle maggioranze e delle minoranze quale espressione delle mutevoli correnti della pubblica opinione vista come fastidiosa fonte di legittimità. Ancor più il fascismo cerco di dare un fondamento legittimante all'edificio totalitario con un assetto politico e sociale - il corporativismo - fondato sulla rappresentanza diretta e organica dei singoli interessi, intesi quale espressione funzionale delle forze reali e produttive del Paese. I membri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, istituita nel 1939, non erano più designati a titolo individuale (deputati politici per professione), ma in ragione della carica rivestita all'interno dell'organizzazione corporativa. Questa Camera, cioè, doveva esprimere soltanto le istanze economiche, fungendo come un organismo tecnico e sindacale. La selezione di una parte della classe dirigente avrebbe dovuto così passare dai professionisti della politica ai portatori di interessi concreti.

Il fascismo, che pure riscosse, almeno per un certo periodo, un ampio consenso popolare, dimostra che nemmeno le dittature riescono sottrarsi al travaglio istituzionale.

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