Cultura e Spettacoli

Quella volta che Philip Roth si diede alla satira politica

Lo scrittore analizza le parole di Nixon e traccia un ritratto universale delle ridicole promesse di chi vuole il nostro voto

Quella volta che Philip Roth si diede alla satira politica

Bompiani lo pubblicò subito dopo l'uscita negli Stati Uniti. Il titolo non era dei più azzeccati: Cosa Bianca Nostra. Nulla a che fare con il ben più incisivo e originale Our Gang, che oggi Einaudi ripropone come La nostra gang (Protagonisti: Tricky e i suoi amici), in uscita il 18 febbraio (traduzione di Norman Gobetti, pagg. 184, euro 18). Quarta prova di Philip Roth e siamo nel 1971. Aveva già dato alle stampe, due anni prima, quello che ancora da molti è considerato il suo capolavoro, il romanzo ebreo-non ebreo Il lamento di Portnoy. Si era già cimentato con Quando lei era buona (1967, che Einaudi ha tradotto un anno fa) e con Goodbye, Columbus: il primo vede il trionfo del moralismo di Lucy Nelson, la sua unica donna davvero protagonista, il secondo (1959), esordio premiato con il National Book Award, una relazione estiva che rivela di generi e classi sociali molto più di quanto dica con le parole. Fin qui, Roth non è ancora il monumentale Roth e però ci si avvicina: per il New York Times è già un possibile Mailer, o Malamud o Flaubert. Se quella di Portnoy era satira, però, lo era rimanendo nei dintorni del sé o della famiglia e solo per eco in quelli di religione, nazionalità, appartenenza. Con La nostra gang, invece, l'operazione si fa esplicita.
Si parte da un dato di fatto. A San Clemente, che nel romanzo diventa San Dementia, nell'aprile del 1971, Nixon tiene un discorso e Roth ne cita, in maiuscole d'apertura, un inciso: «L'aborto è una forma inaccettabile di controllo della popolazione». Di seguito, Nixon si espone sulla santità della vita umana, il che include la vita dei non ancora nati e i loro diritti, che debbono essere senza meno riconosciuti dalla legge e dai principi delle Nazioni Unite. E sarà proprio Nixon, sotto le spoglie di Tricky Dixon (Tricky è stato in effetti un nomignolo affibbiato al Presidente americano), dalla pagina successiva all'exergo, il protagonista di una manciata di capitoli, costruiti perlopiù sotto forma di dialogo o monologo, tanto da far pensare a una pièce teatrale più che a un romanzo. Capitoli che anticipano profeticamente, specie per quello centrale, che riguarda una sorta di «riunione di consiglio» tra intimi del Presidente, le intercettazioni rese note qualche tempo fa.

Dai «diritti dei non nati» Roth trae spunto per smontare concetto per concetto i meccanismi retorici, spingendo fino al paradosso ogni tematica: se i non nati hanno diritti legali, avranno anche diritto al voto. Ma come potranno embrioni e feti, con un sistema nervoso centrale inesistente e soprattutto trovandosi nella placenta, a procedere alle operazioni di scelta democratica? Non sia mai che una nazione come gli Stati Uniti si fermi di fronte alla concessione di un diritto a persone fisicamente handicappate, è la risposta di Dixon-Nixon ai partecipanti di una fantasmatica ma quanto mai realistica conferenza stampa. E poi, ben venga l'innocenza di chi non possiede un sistema nervoso discriminante e discriminatorio: «Se penso che io stesso sono stato un non ancora nato, un embrione quacchero della California...». E ancora: nel momento in cui un gruppo di boy scout lo accusa violentemente di aver avuto un rapporto sessuale fedifrago, quali sono le possibili ipotesi vagliate da Dixon e dalla sua gang per discolparsi e permettere al Presidente di arrivare a un secondo mandato? Tra le soluzioni, esilaranti, una dichiarazione in cui Dixon si dica «Da sempre incapace di raggiungere il coito». L'avvocato è contrario: «Lei ha due figli, Presidente». Si potrebbe dire che sono stati adottati. Ancora meglio - ipotesi cui però è contrario il chierico: «Si potrebbe dire che io sono gay». Ma anche i gay hanno rapporti sessuali, Presidente. Ma davvero? Dixon trasecola: una cosa del genere è impossibile in una nazione civile come l'America. «È solo un'altra crisi, non c'è nulla di cui preoccuparsi», lo rincuorano i membri della gang: ingrassiamo l'endorsement, l'impeachment è fumo. E Dixon si tranquillizza: sarebbe la seicentounesima crisi superata.
In breve, si parte individuando nella lotta contro l'aborto il punto debole di Nixon, operazione politica e non reale credo, e si finisce con il farlo assassinare e candidarlo alla presidenza dell'Inferno. Dove voleva arrivare l'autore, in quegli embrionali anni Settanta? «Ho riso apertamente sedici volte e per un numero infinito ho riso dentro di me» scrive il recensore del New York Times a pochi giorni dall'uscita del romanzo. E subito dopo tira in ballo Swift, Mark Twain e Ring Lardner. E si ride ancora oggi, a rileggere questi metadiscorsi, oggi, che di satira politica ne sappiamo una più del diavolo.

È sufficiente, per definirlo l'ennesimo capolavoro pre-pastorale americana.

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