Cultura e Spettacoli

La ricetta giusta per cucinare racconti

Nel ricordo di ciò che si è mangiato, può esserci piacere più grande che nel cibo stesso. Un piatto, un vino, un pranzo al ristorante, sfumando nei pensieri, aggiungono al piacere passato il piacere della reverie. La parola scritta può venire in aiuto. Fissa su carta la gioia momentanea, ne coglie lo spirito, ne trasfigura il ricordo. Così nell'antologia Racconti gastronomici (a cura di Laura Grandi e Stefano Tettamanti, Einaudi, pagg. 364, 20 euro), che raccoglie una quarantina di brevi testi di celebri autori, la cucina diviene mezzo di riflessione, sancendo la fecondità artistica fra cibo e parola. E soddisfacendo, come scrivono i due curatori nella prefazione, «le più diverse intenzioni letterarie». Arduo il compito dello scrittore: mettere su carta aromi, sapori, colori e sensazioni tattili. Trasferire ciò che coinvolge i sensi su una pagina, dandogli l'illusione della realtà. Narrare l'atto del mangiare (che tutti pensano di conoscere) vestendolo di nobiltà letteraria.
Ma si può compiere una ulteriore riflessione, alla luce del celebre aforisma del gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin: «Fatemi vedere che cosa mangia e vi dirò che uomo sia». Scorrendo mentalmente i personaggi della letteratura, si potrà facilmente convenire che i «romantici non mangiano, i realisti mangiano e descrivono con misura e parsimonia, i veristi mangiano cibo rustico e regionale, soffrendo nel procurarlo, pagarlo e consumarlo, e i decadenti mangiano poco e molto raffinato».
Che il cibo sia una delle quinte colonne della nostra civiltà è indubbio. Tutti, anche coloro che lo hanno schifato per posa o ascetismo, hanno dovuto fare i conti con l'amore per la tavola che percorre la cultura dell'Occidente. Dal Simposio platonico ai grandi pranzi che accompagnano la decadenza della famiglia Buddenbroock, nell'omonimo romanzo di Thomas Mann, il cibo è protagonista perenne di pagine memorabili. Di volta in volta, la tavola è «luogo di scambio e conversazione», espressione di potere e ricchezza, metafora di amicizia e condivisione, piacere del corpo e nutrimento dello spirito. Giungendo, nel pane e nel vino dell'eucarestia, a trasfigurarsi in simbolo religioso.
Come di Robespierre si dice non nutrisse alcun interesse per il cibo, mangiando poco e scondito (in modo inversamente proporzionale alla sua cieca sete di sangue), così, avverte Aldo Buzzi, nell'incipit del volume, sarebbe meglio diffidare dello «scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo, di cuochi, di pranzi» perché manca «di qualcosa di essenziale». Non si rimane quindi indifferenti a queste pagine dove gli arrosti inseguono i funghi e i tartufi, i prosciutti le verdure, la frutta i pesci. L'imprevisto e l'inaspettato, fra i vapori della cucina, paioli di rame e mestoli di legno sono poi sempre in agguato. I lettori potranno allora stupirsi dell'inedito utilizzo di un cosciotto d'agnello fatto da Mary Maloney, nel racconto di Roald Dahl. Mentre i più sensibili alle tematiche animaliste, dopo aver letto Considera l'aragosta di David Foster Wallace, avranno qualche problema di coscienza la prossima volta che si troveranno nel piatto il nobile (e gustoso) crostaceo. Poco male, per rincuorarsi basterà pensare a Le ostriche di Anton Cechov, a Il panettone di Dino Buzzati o a La pagliata di Mario Soldati.
Fra le pagine più belle quelle in cui Jonathan Swift, di ritorno dai suoi gulliveriani viaggi, dà istruzioni alla sua cuoca o quelle nelle quali Filippo Tommaso Marinetti stende il suo Manifesto della cucina futurista, scagliandosi contro la «pasta asciutta, assurda religione gastronomica italiana» e invitando la «chimica al dovere di dare presto al fisico le calorie necessarie mediante equivalenti nutritivi in polvere o pillole» per costruire «corpi italiani adatti ai leggerissimi treni di alluminio che sostituiranno gli attuali pesanti treni di ferro, legno e acciaio». Appare anche l'imaginifico Gabriele d'Annunzio, nei ricordi di un undicenne Giancarlo Fusco, fortunato ospite alla mensa del Vittoriale: «Non era una tavola da pranzo quella ove sedemmo. Era una specie di altare pieno di cimeli e oggetti dal misterioso significato». Il ricordo dell'atmosfera della Prioría, si mescola a quello degli spaghetti alla chitarra, serviti da due bellissime donne cinte solo da «corte tunichette trasparentissime che lasciavano intravedere, nettissimo, folto e tenebroso il “bosco d'amore” che faceva chiazza sotto l'addome».
E in fondo il cibo, più che “medicina” (come altrove scrive Adam Gopnik), è amore. Così la cucina. Amore puro, semplice, e senza condizioni.

Perché, come usano dire le due più brave cuoche italiane, la minuta Nadia Santini e la schiva Luisa Valazza: «cucinare per coloro che si ama è la più grande prova d'amore».

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