Cultura e Spettacoli

Riecco le lettere russe che mandarono in tilt l'intellighenzia chic

Ripubblicato il "diario" di viaggio che nel 1843 denunciava la tirannide zarista, identica al futuro totalitarismo staliniano

Riecco le lettere russe che mandarono in tilt l'intellighenzia chic

Nel 1977, per un elegante editore torinese, Fògola, in una collana che si chiamava «La torre d'avorio», Piero Buscaroli pubblicò le Lettere dalla Russia di Astolphe de Custine (1790-1857), apparse la prima volta nel 1843 in Francia e ripubblicate nel 1975 da Gallimard a cura di Pierre Nora. Oltralpe, il ciclone rappresentato dall' Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn aveva provocato una levata di scudi intellettuale, il fenomeno dei cosiddetti Nouveaux philosophes , la «barbarie dal volto umano» eccetera, ma in Italia, appena l'anno prima, il Pci aveva raggiunto l'apice del suo potere elettorale, era divenuto di fatto, con la formula della «solidarietà nazionale», partito di governo e definirsi «comunista» e/o «compagno di strada» dei comunisti era ancora il massimo dello chic. All'inizio di quel decennio, oltreoceano, il libro di de Custine, ristampato per l'occasione, era stato definito da George F. Kennan «un'opera eccellente, senz'altro la migliore di tutte, sulla Russia di Stalin, e resta un libro niente male sulla Russia di Breznev e di Kosygin», e insomma nel tradurlo e presentarlo al pubblico italiano Buscaroli dimostrava di essere, editorialmente parlando, in sintonia con il dibattito culturale del suo tempo, non fosse che, culturalmente parlando, era la «classe dei colti» italiana a essere provinciale e in ritardo, ideologicamente bigotta, ancora convinta che l'Urss di Breznev non fosse poi così male e i suoi detrattori semplicemente dei «fascisti» intorno ai quali erigere un «cordone sanitario» nel nome della morale democratica, antifascista e blablabla...

Così, le Lettere dalla Russia non ebbero allora alcuna eco, una recensione che fosse una nella stampa che dava la linea e che contava, e l'idea che ora Adelphi proponga tradotto quel testo, ripreso proprio da quell'edizione francese del 1975, ha qualcosa di surreale, una novità che però non è una novità, un accorgersi, quarant'anni dopo, di ciò che quarant'anni prima si era fatto finta di non vedere, un sottolineare le coincidenze «della tirannide zarista con il totalitarismo staliniano e dei suoi epigoni post-perestrojka» che rivernicia d'attualità un ritardo altrimenti incolmabile. Adelphi naturalmente fa il suo mestiere e nel repêchage , come dire, del politicamente scorretto è un riconosciuto maestro, ma ciò che fa riflettere è il coro, prevedibile e che si è già fatto sentire, intorno a de Custine e al suo capolavoro intonato da mâitres-à-penser vecchi e nuovi, più o meno furbi, più o meno ignoranti, più o meno smemorati, comunque dimentichi di ciò che sono stati gli anni Settanta, quel clima plumbeo la cui polvere sottile continua a permanere nella disinvoltura con cui si diventa ex, post, dopo post senza mai essersi veramente messi in discussione, l'eterno riciclaggio-lavaggio delle coscienze che permette di gestire il potere facendo finta di stare all'opposizione. Ne ha fatto giorni fa cenno Paolo Isotta in una lettera al Corriere della sera , proprio dopo una lenzuolata in onore di de Custine e ovviamente rimasta senza risposta.

D'altra parte, di che cosa stiamo parlando? L'altro giorno su La Stampa un dialogo fra il suo direttore e il suo vicedirettore, fresco quest'ultimo del premio «È giornalismo», dava l'idea del minuetto fra due compiaciuti cicisbei: i ritagli da conservare, un due tre quattro, la fatica del cronista, quattro cinque sei, il rispetto per il lettore, sì sì sì, l'uso della prima persona, nì nì nì, il cinismo no no no, sempre in pista, già già già, sempre meglio che lavorare, ah ah ah... Va da sé che si tratta di colleghi eccellenti, e naturalmente hanno letto Biagi, Bocca e Montanelli. Se si sforzassero potrebbero arrivare magari a Malaparte (c'è riuscito persino Baricco), che oltretutto diresse La Stampa , anche se alla Stampa fingono di non saperlo. Con un altro sforzo arrivano persino a Buscaroli.

Torniamo a de Custine. L'edizione Adelphi è elegante, ma quella di Fògola lo era di più, arricchita dalle tavole a colori di Denis Auguste-Marie Raffet dipinte nel 1840 per il Voyage in Russia di un altro nobile, il principe Demidoff. L'introduzione di Pierre Nora è di prim'ordine, ma quella di Buscaroli gli è superiore, perché lì dove questi definisce il successo del libro, negli anni della guerra fredda, come «il trionfo postumo di una caricatura», egli vi aggiunge che in realtà «quel trionfo postumo sta nel perfezionamento, fino alla completa perversione, di un'immagine sociale e politica. Custine vide nell'infernale meccanismo di servitù e tirannide il nesso intimo del regime zarista. La moralità sovietica, quale si presenta a sessant'anni dalla rivoluzione, quanti tanti separavano Custine dalla sua esplosione, ha perfezionato quel nesso sciagurato coi sussidi di una ideologia dalle pretese universali».

Il fatto è, come nota ancora Buscaroli, che «Marx disprezzava la Russia, Lenin non si aspettava niente dalla rivoluzione compiuta nel suo solo paese. Sbagliavano entrambi. Il marxismo doveva rivelarsi perfetto soltanto sul suolo russo. Togliete all'autocrazia zarista quel tanto che conservava di remore religiose, di senso dell'onore e regole aristocratiche; aggiungete una rivoluzione, due guerre mondiali, gli squilibri di una crescita forzata, il più invadente assillo economico, un duello strategico prolungato, la popolazione quadruplicata, la crescente tensione interna, e avrete il dispotismo dei “nuovi zar”, come i cinesi chiamano i capi sovietici». E del resto, ancora oggi, da dove vengono «le menzogne come fondamento dello Stato», dalle sciagure aeree o sotto i mari agli assassini politici; la trasformazione degli oppositori in pazzi o «parassiti sociali»; la cancellazione e/o adulterazione di biografie sino al giorno prima esemplari? Tramite il comunismo, le virtualità del dispotismo zarista divennero un sistema che, di fatto, ha portato a compimento e perfezionato un genio nazionale.

De Cutine fu l'ultimo prodotto di una società aristocratica inabissatasi con la rivoluzione dell'89, «l'ultimo dei marchesi» secondo la definizione di Barbey d'Aurevilly, «un genio il cui dandismo arrivava sino alla negligenza» secondo Baudelaire. Non essendo un rivoluzionario, ma, come diceva ironicamente, «essendo stato rivoluzionato», visse l'800 di Napoleone e poi della Restaurazione da uomo libero. Omosessuale, lo fu con eleganza e dichiaratamente. Aveva avuto come padrino e patrigno Chateaubriand, come madre Delphine de Sabran, e da entrambi aveva appreso l'amore per la propria indipendenza, il rispetto di se stessi, il disprezzo per le opinioni correnti. Francese sino al midollo, erede di un tempo in cui «la libertà di linguaggio riposava sulla certezza di essere compreso da chi viveva e parlava allo stesso modo. C'era una società e non il pubblico. Oggi c'è un pubblico, ma non c'è più la società», si improvvisò cosmopolita: capì in anticipo la rivoluzione industriale dell'Inghilterra, descrisse la Russia nella sua essenza come mai era stato fatto.

Un non conformista e uno scrittore di talento.

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