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Rocco, il fascioconservatore che rifondò lo Stato italiano

Colto, amante dell'ordine e del modello tedesco, non amava i movimentisti. A colpi di diritto mise in riga il regime e i sindacati. Persino Mussolini ne aveva soggezione. E lo cacciò

Rocco, il fascioconservatore che rifondò lo Stato italiano

Al momento della sua scomparsa, il 28 agosto 1935, Alfredo Rocco non aveva ancora compiuto sessant'anni essendo nato a Napoli il 9 settembre 1875 da una famiglia che Indro Montanelli avrebbe scherzosamente definito «un allevamento di cavalli di razza» alludendo al fatto che i suoi tre fratelli - Arturo, Ugo e Ferdinando - lasciarono, pur essi, un segno importante nelle scienze giuridiche. All'epoca, Alfredo Rocco, malgrado fosse ancora nel pieno delle sue energie, era praticamente uscito dalla scena pubblica ed era tornato agli studi. Mussolini lo aveva allontanato dal governo nel 1932 nel quadro di un ampio rimaneggiamento ministeriale. La notizia della sua sostituzione al ministero della Giustizia, che guidava dal 1925, gli era giunta improvvisa. La lesse sui giornali mentre si trovava a Ginevra. Si adeguò disciplinatamente e in un telegramma al duce scrisse che il provvedimento corrispondeva al «concetto giusto avvicendamento uomini governo». In realtà non si spiegò mai i motivi del suo allontanamento tanto che, interpellato da Angelo Sraffa, rispose (come riportò subito un informatore della polizia) di non rendersene conto.

Quell'anno, il 1932, ricorreva il primo decennale della «rivoluzione fascista». Il regime aveva ormai superato la fase della stabilizzazione, godeva di consenso popolare e aveva realizzato molte profonde riforme istituzionali. Mussolini riteneva fosse giunto il momento di dare inizio a un nuovo “ciclo” basato sulla centralità della sua persona (non a caso riassunse la guida degli Esteri) e sulla opportunità di sostituire personalità di governo troppo forti. L'allontanamento di Rocco, che pure stimava moltissimo e nei cui confronti nutriva un senso di inferiorità, aveva un significato preciso: esprimeva la sua diffidenza per il reazionarismo ideologico-giuridico del guardasigilli.

In effetti Rocco aveva disegnato un edificio la cui sostanza reazionaria era indiscutibile. Il suo nome era legato alla «trasformazione dello Stato», dalle leggi cosiddette «fascistissime» alla legge sindacale, dalla legge sulla rappresentanza politica alla codificazione penale e via dicendo. Lo spirito con il quale si era messo al lavoro era quello di creare (son parole sue) una «nuova legalità» per «rientrare nella legalità»: una legalità di stampo monarchico, oligarchico, conservatore. Molte leggi, in apparenza miranti al rafforzamento del fascismo, prefiguravano in realtà uno Stato così rigido da rendere impossibile qualsiasi tentativo, anche di parte fascista, di stravolgerne le connotazioni conservatrici.

Non a caso, in alcuni ambienti fascisti, in particolare rivoluzionari e “movimentisti”, si sostenne che stava realizzando uno Stato che sarebbe piaciuto a Metternich.

Rocco proveniva dal movimento nazionalista cui era giunto tardi, alla vigilia del primo conflitto mondiale, dopo marginali esperienze socialiste e radicali. Si era subito imposto come la mente più lucida e originale di quel partito. I Corradini, i Federzoni, gli uomini cioè più significativi del nazionalismo, erano approdati alla politica dalla letteratura, avevano respirato la ventata di irrazionalismo che aveva investito la cultura europea tra la fine del secolo diciannovesimo e gli albori del ventesimo, erano rimasti sedotti dalle manifestazioni vitalistiche dell'epoca. Si erano avvicinati al sindacalismo rivoluzionario, leggendolo in chiave irrazionalistica e mitologica: nello sciopero generale e nella violenza preconizzati da Sorel avevano visto dei miti capaci di catalizzare eticamente le energie delle masse. Alcuni, poi, avevano accettato la pregiudiziale antigiacobina dei nazionalisti francesi contestando il «centralismo rivoluzionario», napoleonico prima e radicale poi, ed esaltando l'autonomismo locale contro lo straripamento del potere centrale.

Rocco fu sempre lontano da posizioni del genere. Guardò con sospetto la simpatia dei compagni nazionalisti per il sindacalismo rivoluzionario e si fece banditore di un assolutismo di stampo classico che privilegiava la funzione accentratrice dello Stato e si configurava come risposta del potere politico alle tendenze disgregatrici e alle forze centrifughe della società contemporanea. In un certo senso egli si preoccupò di adeguare il pensiero reazionario classico alla realtà e alle esigenze della società di massa. In questa prospettiva, per esempio, si collocava l'idea che il sindacato potesse mutarsi da strumento di eversione in fattore di disciplina sociale attraverso la sua trasformazione in figura di diritto pubblico e, quindi, sotto il controllo dello Stato. Nel corso del dibattito sull'approvazione della «legge sindacale» del 1926 egli fu esplicito: «lo Stato non può ammettere, e lo Stato fascista meno che mai, che si costituiscano Stati nello Stato. L'organizzazione dei sindacati deve essere un mezzo per disciplinare i sindacati, non un mezzo per creare organismi potenti e incontrollati che possano sovrastare lo Stato».

Il nazionalismo di Rocco fu soprattutto statualismo così come il suo fascismo. Lo Stato - come organismo economico e sociale, politico e giuridico - fu al centro della sua riflessione e della sua attività di legislatore: uno Stato, come scrisse, «sovrano e superiore agli individui, ai gruppi, alle classi», uno Stato che, però, della sua sovranità avrebbe dovuto servirsi «non per fare opera di oppressione, bensì per realizzare fini superiori».

Lo Stato del quale parlava Rocco non aveva nulla dello Stato totalitario. Il suo riferimento ideale erano gli Stati autoritari classici con una non celata preferenza per il modello della Germania guglielmina o, in misura minore, per un Ancien Régime che tenesse presente il fenomeno della irruzione delle masse sulla scena politica come frutto della Grande guerra.

La concreta attività di legislatore di Alfredo Rocco si rifaceva a una organica e monolitica filosofia politica, a una precisa e coerente visione dello Stato e dei rapporti di questo con i cittadini. Basta leggere le relazioni che accompagnavano i disegni di legge da lui presentati in Parlamento per rendersene conto: non solo una illustrazione tecnica del provvedimento da adottare ma, prima di tutto, una sua giustificazione teorica e di filosofia politica. Un illustre giurista, Giuliano Vassalli, ha osservato che nessun altro ministro riuscì, come Rocco, tecnico di altissimo livello, a «trasformare», nel bene e nel male, lo Stato italiano: non vi era riuscito nessuno, prima di lui, nell'Italia liberale, non vi sarebbe riuscito nessun altro, dopo di lui, nel secondo decennio del fascismo e, poi, nella nuova Italia democratica e antifascista. Le polemiche sulla sopravvivenza, nell'Italia postfascista, dei codici legati al nome di Rocco, incompatibili con lo spirito dello Stato democratico, rivelano come la capacità di resistenza alle sollecitazioni di riforma di quell'impianto normativo fosse dovuta al fatto che la legislazione di Rocco era il risultato, prima ancora della tecnica giuridica, di una compatta e organica visione della società e della politica.

Che tale visione, poi, non sia più in linea con la moderna sensibilità democratica è altro discorso.

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