Controcultura

il Romanino fra i santi contadini della Valcamonica

L'autore anticalssico per eccellenza diede il meglio di sé nei piccoli centri rurali

il Romanino fra i santi contadini della Valcamonica

Uno dei più avventurosi e stravaganti incontri che si possano fare con la grande pittura dell'Italia settentrionale, quella che autorizza, come faceva Francesco Arcangeli, a riscrivere i valori della storia della pittura, ribaltando le gerarchie del Vasari, è il percorso che dalla riviera del Lago d'Iseo sino alla Valcamonica, conduce alla visione di tre cicli di affreschi dipinti da Girolamo Romanino, anticlassico per eccellenza, capace d'incarnare nello stesso tempo il tormento formale manierista e le profonde inquietudini spirituali che, reagendo al Luteranesimo, precedettero la Controriforma.
Come e più di Lotto, Romanino sceglie, dopo la grande delusione della rottura del contratto con i massari del Duomo di Cremona, dove è costretto a lasciare il lavoro intrapreso al Pordenone, di rifugiarsi in un perimetro d'azione defilato. Certo, non rinuncia al confronto con altre stelle di prima grandezza. Nella decorazione della Cappella del Sacramento in San Giovanni Evangelista a Brescia (1521-1524) la sfida con il Moretto diventa un vero corpo a corpo. Ma da quel momento in poi l'accettazione di contesti di committenza in cui può mediare lo stile degli affreschi cremonesi con altri linguaggi, come nella collaborazione con Dosso Dossi per la decorazione del Castello del Buonconsiglio a Trento (1531-1532), convive nel Romanino con la scelta accurata di ribalte minori, dove può operare con piena libertà espressiva. Risale dunque il Sebino, s'inerpica per le contrade della Valcamonica. Si ferma a Pisogne, e, più su, a Breno e Bienno. In questi luoghi ritrova la stessa umanità che aveva evocato tante volte, nei tratti fisiognomici resi con quel crudo realismo che paradossalmente è una forma di adesione al mondo degli umili. I ricordi delle soldataglie tedesche che correvano la Lombardia ritorna nei volti immortalati entro le scene affollate di questi oratori montani. I volti osservati nelle strade e nelle locande, i corpi tozzi e robusti, sormontati da profili ispidi e sgraziati, com'era normale trovare nei luoghi dov'erano prevalenti i matrimoni tra consanguinei. La cifra stilistica del Romanino nasce dall'unione di cultura alta e bassa, lingua aulica e dialetto impastato coi suoni del popolo, chiarezza dottrinale della Controriforma e prepotente riemersione del substrato devozionale di un cattolicesimo popolare che vibra della dolente fisicità delle Sacre Rappresentazioni, dei Misteri e dei riti della Settimana Santa, che in quei luoghi produrranno un altro esito formidabile nella Via Crucis intagliata nel legno di Beniamino Simoni a Cerveno.
A Pisogne, nella chiesa della Madonna della Neve, decora nel 1534 l'intero edificio. È qui, nella controfacciata, che si consuma la vendetta sul Pordenone, con una Crocifissione che riprende il modello cremonese del rivale. Dove questi eccede in monumentalità, nel tentativo di fondere Tiziano con Michelangelo, Romanino restituisce respiro al racconto e semplifica l'impaginazione. Nelle scene delle pareti laterali utilizza la stessa base d'intonaco come colore. Le figure si ammassano nei riquadri, una a ridosso dell'altra, scontornate brutalmente da un tratto scuro di pennello grosso. «Romanino qui fa il controcanto della parola che si fa carne, infatti prende la carne di un popolo, di una valle e ne fa verbo figurativo», scrive Giovanni Testori, che definisce la decorazione di Pisogne «La Cappella Sistina dei poveri».
Nel borgo camuno di Breno dipinge nel 1531 le Storie tratte dal libro di Daniele, protettore contro il fuoco, e dunque oggetto di grande devozione in quei luoghi valligiani di fucine e forni fusori. Qui le figure si sovrappongono, gli episodi si fondono senza soluzione di continuità. Salta ogni gerarchia spaziale: il mondo è un vortice, in cui gli uomini si accatastano senza più ordine. Prevalgono gli scorci vertiginosi, e il dramma, non solo corale, ma vissuto sulla pelle di ciascun personaggio.
A Bienno nel 1541 realizza infine sulle pareti della Chiesa di Santa Maria Annunciata le Storie della Vergine. Lo spazio è davvero angusto, e Romanino per cavarsela deve stavolta attenersi a una rigorosa organizzazione spaziale. Per la scena della Presentazione al tempio recupera un'impaginazione a lui cara, quella della scalinata, anche perché la presenza nel muro di una finestra lo costringe a uno svolgimento in verticale dell'episodio. Maria sembra inciampare nei gradini. Un tono favolistico, indubbiamente rasserenato, è anche nello Sposalizio della Vergine, che somiglia a una festa paesana.

La poetica del Romanino ne esce come attenuata, accordata a un tono di compassata nostalgia, acceso occasionalmente da particolari patetici, come i sorrisi incrinati e le espressioni pensierose dei giovani che partecipano al corteo nuziale.

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