Cultura e Spettacoli

La situazione è grammatica ma l'errore salva la lingua

Il parlato (e a volte anche lo scritto) è spesso pieno di strafalcioni L'eccesso di perfezione però può portare a un italiano mummificato

La situazione è grammatica ma l'errore salva la lingua

C'è un libretto di Alexandre Koyré che si intitola Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione . Non parla di linguaggio: parla di scienza e tecnologia, e di quel «salto» che l'umanità ha fatto, a un certo punto, trasformando la scienza in applicazione tecnologica e rendendo il mondo inesatto un meccanismo preciso fatto di metodo, misurazioni, previsioni e strumenti. L'italiano oggi è un po' così: un abisso scavato fra il mondo del pressappoco - cioè la lingua parlata, la lingua che si usa su whatsapp e su facebook e che i ragazzi replicano anche a scuola - e l'universo della precisione - cioè la lingua come dovrebbe essere secondo i canoni stabiliti, fissati, rispettati (e da rispettare per non sembrare dei caproni). I ponti su questo abisso sono traballanti: perché non è scontato trovare l'equilibrio giusto, aderire alle regole in maniera esemplare e, allo stesso tempo, rendere una lingua viva, reale. Evitare strafalcioni da un lato e atrofizzazioni dall'altro. Una lingua sgarrupata contro una mummificata.

Però non tutti gli errori sono un male. È la tesi di un libro di Andrea De Benedetti, La situazione è grammatica (Einaudi, pagg. 136, euro 12), sottotitolo: «Perché facciamo errori. Perché è normale farli»: la situazione è quella della nostra lingua, che non è «drammatica», spiega l'autore, perché «drammatico sarebbe se l'italiano smettesse di evolversi»; invece vive, e la prova sono proprio gli errori. «La possibilità di sbagliare non è infatti soltanto la principale garanzia della nostra libertà. È anche, e soprattutto, il principale indicatore della vitalità di un idioma» scrive De Benedetti, che ha il terrore di una grammatica che diventi soltanto «un codice definitivo di norme» da tenerci «così, fredda e immutabile», un monoblocco di «emissioni linguistiche a impatto zero, preventivamente bonificate da ogni sorta pensabile di errore, sbaglio o refuso». L'errore va notato e corretto; ma chi sbaglia non va fustigato sull'altare della Crusca, perché pure quest'ultima deve vivere in un mondo reale. Altrimenti «non saremo più liberi neppure di sbagliare».

L'idea che l'errore sia vitale e in qualche modo fondamentale può disturbare, non solo i puristi. Odora di lassismo, dà la sensazione che si tolleri qualche sciatteria. Però si paga un prezzo anche per troppa perfezione. «Forse arriverà il giorno in cui non avremo più bisogno di scrivere, perché un software lo farà al posto nostro traducendo la massa informe dei nostri pensieri in testi chiari e scorrevoli»: e anche questa prospettiva forse non disturba? Eppure è già realtà: esistono algoritmi in grado di scrivere testi, articoli, libri interi perfino e ci sono delle società che come business «producono» parole scritte, parole che le persone non hanno più la voglia o il tempo di scrivere, così i computer lo fanno al loro posto, in pochissimi secondi. Basta fornire i dati base e la macchina fa tutto da sola: è quella che il New York Times ha definito «l'industria delle generazione automatica di narrazione», una strada scelta, per esempio, dall' Associated Press , che affida a una piattaforma la produzione di tremila report finanziari ogni trimestre e da Forbes per il suo sito. Nessuno si scandalizza. Il giornalista-robot «genera» in fretta pezzi puntuali, chiari, inappuntabili; il cofondatore di Narrative Science ha stimato col New York Times che «il novanta per cento delle notizie potrebbe essere prodotto con un algoritmo entro il 2025». Questo è l'universo della precisione, in cui si possono fabbricare duemila articoli al secondo, e anche (non) scrivere un milione di volumi, come ha fatto Philip M. Parker (migliaia sono anche in vendita su Amazon).

La domanda è quanto si possa sacrificare al principio della chiarezza e della norma: si può ignorare da chi sia stato scritto un report finanziario sulle società della Silicon Valley, ma chissà chi avrebbe voglia di leggere un romanzo scritto da una formula matematica. Senza una sbavatura, ma è come per le etichette di certi vestiti: «Se su questo capo trovate delle imperfezioni, è perché è un prodotto artigianale e unico». Immanuel Kant a un certo punto era insoddisfatto e si creò un linguaggio filosofico tutto suo: le parole a disposizione non bastavano, ne aveva bisogno di nuove per potere esprimere il suo pensiero. A parte che il risultato era chiarissimo per Kant e un po' meno per i lettori di massa, così il filosofo risolse il problema di creare un ponte traballante che funzionasse per lui e insieme lo collegasse al mondo. Certo non tutti possono permetterselo. Però sul ponte bisognerebbe forse scendere a patti col fatto che le codificazioni non siano per forza imposizioni da vecchi barbuti e che non tutti gli sbagli siano bocciature senza appello, altrimenti vinceranno gli algoritmi, con la loro algida irrealtà, con la risposta inquietante a ogni domanda, tranne quella che davvero interessi: ma l'autore che cosa voleva dire? La macchina non voleva dire niente. L'algoritmo è come Marlow, l'uomo che raccoglie gli scritti di Kurtz in Cuore di tenebra e ne racconta la storia, però omette il post scriptum finale: e cancella tutto il significato, perché è in quell'errore, in quel post scriptum («sterminate tutti questi bruti») che c'è Kurtz, è in quell'incoerenza che sta la sua verità, e quindi cancellare quella frase rende tutta la vicenda di Kurtz chiara e tollerabile, ma falsa.

Il fatto è che ci sono tanti Marlow, e pochi Derrida sul ponte, a raccontarti che cosa è successo (anche a rischio di essere poco comprensibili, come Kant).

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