Cultura e Spettacoli

"Sono fascista per disciplina ma non credo negli uomini"

Il grande musicologo confessa (senza amarezza) le proprie disillusioni e mena fendenti a destra e a sinistra. Da Benedetto Croce a Willy Brandt

"Sono fascista per disciplina ma non credo negli uomini"

Bologna - Altro che Piero il terribile: cortese, cortesissimo, spunta in cima alle scale della casa nel centro di Bologna, lo sguardo da Re Leone. Al telefono aveva detto: «È passato a trovarmi un reduce della RSI. Aveva perso la guerra e alla fine era in pace. Io non l'ho fatta perché ero troppo piccolo, ed è finita che ho dovuto odiare al posto loro. Per sessant'anni».
Ma a 82 anni Buscaroli più che di combattere ha voglia di raccontare, intrattenere, perfino ridere: «Gli dei mi avevano assicurato che nel 2012 sarei morto. Invece dicono tutti che sto bene, se lo dicono loro... Mi hanno trovato un po' di diabete. Raccontava un amico napoletano, Oderisio Piscicelli Taeggi, ufficiale del Regio Esercito: “il diabete è la malattia più deliziosa del mondo. È una schermaglia quotidiana con la glicemia”». Storia, giornalismo, musicologia: Buscaroli ha scritto «in guerra». «Il mio Beethoven ha corretto più di 150 dati storici. Per decenni mi sono domandato se avrei avuto la forza di prendere per il collo questo gigante. Mi sono chiuso nella casa in campagna, a Monteleone, per quattro anni: mangiavo e dormivo quando capitava. Una volta ebbi un collasso, se ne accorsero in tempo per fortuna». Ma Dalla parte dei vinti (Mondadori, 2010) è una controstoria italiana, risentita, sì, però piena di dati, episodi, cose. E ora La bancarotta dei vincitori (uscirà in primavera per Minerva edizioni, pare gli abbiano assicurato la massima libertà e il minimo di editing). C'è il revisionismo «alla Buscaroli», ma anche i pezzi dal Vietnam, pieni di vitalismo e curiosità; e i ricordi dei maestri. Oltre all'animo eracliteo da Polemos signore di tutte le cose, emerge la gioia sottile di raccontare.
Nel libro emerge un Leo Longanesi inaspettato: uomo dalle idee «ferme e forti».
«Non ci demmo mai del tu. Ma era lo stesso con il suo grandissimo amico Giovanni Ansaldo, cui una volta domandai: “ma come mai, con la dimestichezza che avevate avete continuato a darvi del lei fino alla fine?”. Rispose: “Con tutto quello che si sapeva l'uno dell'altro, se ci si dava del tu che troiaio veniva fuori!”. Su Longanesi le confesso una cosa esplosiva».
Prego.
«Appena prima di morire \ voleva andarsene in America con una ragazza lunga, di belle fattezze, che chiamavamo la Cannavòta. Aveva raccolto molti soldi, era pronto. Forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciare la moglie, che aveva annusato qualcosa, e i figli. Era disgustato dall'Italia».
Come lei...
«Ho rifatto i conti con il passato almeno tre volte. Gli italiani buoni non sono mai esistiti. O meglio, gli italiani buoni non parlano. E sono pochissimi».
Anche sotto il fascismo?
«Già allora l'Italia era quella di adesso. Nessuno degli intellettuali, da Benedetto Croce a Marconi, ebbe il tempismo o l'astuzia di dire a Mussolini: “stai facendo una porcata” con le leggi razziali».
E chi si salva?
«Un episodio. A Imola, quello che poi divenne il comandante delle Brigate Nere di mestiere faceva il direttore di un ospizio. I soli ricchi ebrei a Imola erano la famiglia Fiorentino: padre e madre riuscirono a scappare, lasciando lì il padre della moglie, il generale Gallicchi. Fu aiutato da questo gerarca, e accolto nell'ospizio».
Un italiano buono, e zitto...
«Appartenere a una parte o all'altra dipende da un momento, dal Caso. Mio padre era fascista, “per disciplina” come disse, con frase bellissima, Edda Ciano. Senza farsi tante domande. Anch'io lo sono, “per disciplina”».
Ma non è stato tenero con l'Msi.
«Negli anni '50. Un gruppo di politici e intellettuali che volevano “rifondare la destra” invitarono Longanesi e me. C'erano De Marzio, Tedeschi, Guglielmi. E Arturo Michelini, che aveva scarpe bianche, di una bellezza... Mentre parlavano di “vecchi ideali”, guardavo Longanesi, abbacinato dalle scarpe. Poi sbottò: “Ma lei! Come si fa a parlare di destra con quelle scarpe lì?”».
Non apprezzava Almirante. Chissà Fini...
«Il peggiore di tutti. Una volta mi invitò a Faenza. Fece due comizi tutti uguali, comprese le congiunzioni. Un nulla totale».
I politici di oggi?
«Bersani dice cose serie, sensate, ma non lo voto. Berlusconi è stato una delusione, anche se l'altra sera da Santoro ha fatto una cosa divertentissima, sul piano della farsa».
Torniamo ai buoni e ai belli di cui parla nel libro: Vincenzo Cardarelli.
«Montale, che non gli fu amico, scrisse che era stato lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma quando lo conobbi, a Roma, negli anni '50 era un fagotto. Stava al primo caffè di via Veneto, aveva sempre freddo. Era nato naufrago, abbandonato dal padre. Longanesi l'aveva scaricato crudamente, e lui l'aveva capito. Una volta avrebbe dovuto portarselo dietro alla mostra che organizzava al Sistina, ma lo lasciò lì. Longanesi era capace di freddezze assolute. Quando Longanesi morì Cardarelli disse: “È l'ultimo dispetto che potevi farmi”».
E veniamo a uno che la nomea di evitabile l'ha avuta per decenni, Mario Praz.
«La casa della vita era il più grande libro italiano dopo Lemmonio Boreo di Soffici. Ma quell'anno, era il '59, il premio andò a Il Gattopardo. Scrissi una recensione, me ne ringraziò, e iniziò il nostro rapporto. Antidemocratico d'istinto. Timido, piede caprino, occhio torto. Una volta andai da lui, vidi una magnifica libreria, gli chiesi di copiarla. Mi disse: “Pensi che l'ho copiata dal duca di Bedford”. È questa qui». \
La sua passione per il collezionismo?
«Io credo nelle cose, non credo negli uomini».
Regalò una moneta d'argento a Nguyen Cao Ky, primo ministro sud-vietnamita dal '65 al '67...
«Inviai a Ky un esemplare delle due lire d'argento del 1923, col fascio littorio e la scritta “Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”. Avevo una mia idea della guerra in Vietnam. Convinsi, con fatica, Tedeschi e Giovannini a spedirmici come inviato».
Quale idea?
«Stavo con i vietnamiti del Sud, gravati dalla divisa americana. Capii che il vero coraggio stava dalla loro parte: considero i sudvietnamiti come la RSI».
Il suo incontro con Ky...
«Sapeva che non avrebbero vinto. Come premio i generosi americani gli diedero una pompa di benzina. Gli americani sono il peggio, peggio dei russi. E ora sono contento perché rimarranno fregati dai cinesi».
In Vietnam incontrò Susanna Agnelli...
«Egisto Corradi e io credevamo fosse arrivata come crocerossina. E invece era lì, puntualizzò, come inviata da una lega di società di Croce rossa. Approfittava dei mezzi di trasporto degli americani ma stava con i vietcong. Piena di snobismi, raccontava delle serate con Moravia e la Maraini chiamandoli Dacia e Alberto. Mi venne alla mente la delicata poesia di Dacia: “Ti orinerò sulle mani, mio tanto amico...”».
Per lei la guerra è continuata.
«Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l'altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».
Come?
«Nel 1970, quel farabutto di Willy Brandt volle fare un regalo in danaro al Vaticano, in occasione della sua visita a Roma. Quando i tedeschi cercarono di capire le reazioni, raccontai che un importantissimo vescovo lituano faceva notare che si aspettava molto di più da una potenza come la Germania. Tutti credettero all'esistenza di questo vescovo...

».
Twitter@BGiurato

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