Cultura e Spettacoli

"Dopo la strage a Charlie Hebdo si rischia la secessione culturale"

L'intellettuale francese, a partire dal suo nuovo saggio, racconta la mancata integrazione delle banlieue e la fragilità dell'Occidente

"Dopo la strage a Charlie Hebdo si rischia la secessione culturale"

N on è molto ottimista Alain Finkielkraut a proposito di convivenza e integrazione tra etnie diverse in Europa. L'ultimo suo libro, L'identità infelice , scritto nell'ottobre 2013 e pubblicato in Italia a inizio anno da Guanda dopo la strage di Charlie Hebdo , tratteggia una cultura europea arrendevole e «una Francia in cui l'origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica, e in cui una sola identità è tacciata d'irrealtà: l'identità nazionale». Ieri il filosofo, da un anno membro dell'Académie française, è stato ospite del Centro Culturale di Milano per una conferenza intitolata: «Ogni cosa è avvenimento. Si può pensare e vivere così? Ripartiamo da Peguy».

Professor Finkielkraut, con il massacro di Charlie Hebdo la difficoltà d'integrazione in Europa ha mostrato il suo lato tragico. Secondo lei abbiamo sufficiente consapevolezza di questo?

«Non risponderei per l'Europa, ma più modestamente per la Francia. La manifestazione dell'11 gennaio è stato un grande momento di reazione popolare e di soprassalto nazionale. Dopo i massacri dei giornalisti e dei vignettisti ebrei i francesi hanno detto che la Francia non è negoziabile. È il Paese di Voltaire, l'uomo che ha contribuito a fare della blasfemia un crimine immaginario. È il Paese di Montaigne, l'uomo che ha detto che dare troppo valore alle proprie opinioni è come bruciare un uomo vivo. Purtroppo gli abitanti dei cosiddetti quartieri popolari, cioè i quartieri d'immigrati o figli d'immigrati, non hanno partecipato a quella manifestazione. Si sarebbe potuto pensare che quei massacri erano opera di un piccolo pugno di fanatici. Ma ora si sa che in Francia è in atto un fenomeno di secessione culturale».

Questa secessione culturale è l'opposto della convivenza, dell'integrazione, dell'assimilazione. Come trovare un equilibrio?

«Io stesso sono figlio di immigrati. I miei genitori sono nati entrambi in Polonia. Abbiamo beneficiato di una naturalizzazione collettiva quando avevo un anno. Sono andato a scuola in un periodo di assimilazione. Ma quella assimilazione non m'imponeva di fondermi nella massa, di sacrificare la mia identità ebrea. Era la possibilità che mi veniva data di assimilare una parte della cultura francese. Questa assimilazione oggi la si rifiuta sia agli autoctoni che agli stranieri. La cultura è espulsa dalla scuola perché ostacola l'integrazione che, altrimenti, non sarebbe egualitaria. Piango amaramente questa situazione».

Nel suo libro, imboccando uno stretto sentiero, lei denuncia il «romanticismo verso gli altri» e l'arrendevolezza della cultura europea. Ci sono altre strade rispetto all'accoglienza dell'altro?

«Non sono aprioristicamente ostile all'ospitalità. Penso che non si debba disfarsi di se stessi per meglio accogliere l'altro, ma che nostro dovere sia offrirgli ciò che abbiamo di meglio. Ho scoperto l'identità europea leggendo negli anni 70/80 del secolo scorso gli autori dell'Europa centrale. Costoro dovevano difendere la loro identità contro l'imperialismo russo. Leggendoli, ho compreso che io stesso ero europeo e che questa eredità era sia preziosa che fragile. Disgraziatamente nell'Europa occidentale si ha la tendenza a guardare questa eredità con grande diffidenza. E la memoria che coltivano questi ambienti non è la memoria della cultura europea quanto la memoria dei crimini europei, il fascismo, il nazismo, il colonialismo. Ho creato negli anni '90 la rivista Il Messaggero Europeo per far sentire la voce di Milan Kundera e Czeslaw Milosz. La mia rivista ha cessato di esistere, ma continuo a pensare che dobbiamo metterci alla scuola di questi autori».

All'inizio i suoi scritti, come quelli di Oriana Fallaci in Italia, sono stati accolti con scetticismo. Ora, con l'espansione dei movimenti identitari, non c'è il pericolo di scivolare verso tendenze xenofobe?

«Credo si stia diffondendo un sentimento d'insicurezza culturale. Ma non è vero che in Francia aumentino razzismo e xenofobia. I francesi che dicono che ci sono troppi immigrati non testimoniano il loro rifiuto dell'altro, ma la paura di divenire essi stessi l'altro nella propria città, di essere in esilio in casa propria. È un sentimento nuovo e doloroso. Senza sottovalutare i pericoli del populismo, credo che i movimenti identitari rendano manifesto questo sentimento in modo demagogico. Sono convinto che spetti ai partiti tradizionali, di destra e di sinistra, farsi carico di questa insicurezza, piuttosto che criminalizzarla in nome della memoria».

Come replica all'accusa di denunciare inutilmente l'oicofobia, l'odio per le proprie radici, secondo lei maggioritaria in Europa?

«L'oicofobia non è una mia idea, ma un termine usato dal filosofo Roger Scruton. C'è una tendenza a ridurre la storia di Francia ai crimini del passato. Siamo preoccupati di voler espiare questi crimini per affermare la superiorità del presente sul passato. Questa oicofobia è una strana miscela di masochismo e di narcisismo. Sono per un rapporto più giusto verso il nostro passato».

Perché il pensiero di Peguy offre una risposta a questa situazione?

«Perché ci permette di superare l'opposizione tra illuminismo e oscurantismo nella quale certi storici vorrebbero chiuderci. Peguy è un repubblicano intransigente, ma sul piano filosofico è anche un romantico. Ha difeso Dreyfus oserei dire in nome della razza. Evidentemente la parola razza non aveva alcuna connotazione razzista, ma qualificava la nazione come comunità dei viventi e di quelli che stanno per nascere».

Lei critica la relativizzazione del principio di realtà provocato dalle nuove tecnologie. Come si può frenarne l'invadenza?

«Il filosofo Gómez Dávila ha detto che l'anima colta è quella che nel chiasso dei viventi non stronca la musica dei morti. Con le nuove tecnologie il rumore dei viventi raggiunge il suo parossismo. Tutti si connettono in ogni istante. Invece per sentire la musica dei morti bisogna disconettersi. Ma lei ha ragione: è difficile lottare contro le nuove tecnologie».

In questi giorni papa Francesco ha ricordato il primo genocidio del Novecento, quello del popolo armeno, come valuta l'azione di Bergoglio su questi terreni?

«Qualche presa di posizione di papa Francesco mi lascia perplesso. Ma questa volta sono stato molto impressionato dalla chiarezza del suo proposito. Dice il vero senza temere i rischi di accrescere la tensione con il governo turco e il mondo islamico.

Ma è triste pensare che cento anni dopo i fatti dobbiamo ancora lottare perché sia riconosciuto il genocidio armeno».

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