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Il Sud resta povero e arretrato? Colpa della sua classe dirigente

Lo storico dell'economia Emanuele Felice spiega, in uno studio che non fa sconti, come non sia possibile attribuire il ritardo del Mezzogiorno alla rapacità del Nord

Il Sud resta povero e arretrato? Colpa della sua classe dirigente

Se il Sud è rimasto indietro, di chi è la colpa: dei meridionali o dei settentrionali? La domanda così posta sembra brutale, se non fuorviante. Tuttavia, considerando la annosa e famosa «questione meridionale» e seguendone polemiche e dibattiti anche recenti - si vedano i libri di Pino Aprile o il testo della «premiata ditta» Stella e Rizzo Se muore il Sud ma anche gli ottimi saggi di Marco Demarco da Bassa Italia a Terronismo -, approfondendo la pubblicistica e la saggistica con solidi studi storiografici, alla fine ciò che resta è proprio questa domanda: colpa dei meridionali o dei settentrionali? Sono stati i meridionali a non saper crescere o sono stati i settentrionali che li hanno «sfruttati»? È esattamente questa domanda il motore che muove il bello e provocatorio saggio del giovane storico Emanuele Felice ora pubblicato da Il Mulino: Perché il Sud è rimasto indietro (pagg. 264, euro 16). La risposta, rigorosamente documentata dallo studioso che è originario dell'Abruzzo e insegna Storia dell'economia all'università di Barcellona, è netta: la responsabilità è del Sud che non può essere assolto né in sede storica né in campo civile e politico e, al contrario, deve prendere coscienza delle sue colpe per riscattarsi. Lo storico abruzzese è anche più puntuale e punta il dito sulle classi dirigenti meridionali che dall'Ottocento ai nostri giorni - quindi dal barone, al galantuomo, ai possidenti, ai mediatori politici di ieri oggi e domani - hanno lavorato per conservare le cose come stanno sfruttando, loro sì, la propria posizione di dominio sulla società meridionale. Anzi, le classi dirigenti meridionali sono bravissime nel creare una «narrazione» che le assolve e individua in altro - il Nord, la geografia, l'economia - il ritardo del Sud.
C'è un paragrafo di questo intrigante saggio che s'intitola così: «Sfruttati, ma da chi?». Dopo aver smentito che il Sud abbia subito danni irreparabili con l'imposizione della tariffa liberoscambista, con la guerra al brigantaggio, con la sperequazione fiscale tra Nord e Sud - in realtà il Sud ha ricevuto più di quanto abbia dato in termini fiscali - e dopo aver chiarito che non c'è stato uno «sfruttamento», per dirla con linguaggio marxista, del Nord capitalista sul Sud contadino, Emanuele Felice conclude in questo modo che è bene riportare: «Se i meridionali furono sfruttati da qualcuno, per la più grande parte della storia dell'Italia unita, ebbene lo furono dalle loro stesse classi dirigenti. Quelle del Gattopardo, per intenderci, disposte a cambiare tutto - ad accettare l'Unità, poi la modernizzazione, finanche la democrazia di massa - purché nulla cambi. E specie negli ultimi decenni gli sfruttati furono essi stessi complici, volenti o piuttosto nolenti, attraverso il voto clientelare. Stando così le cose, scaricare tutte le colpe sul Nord a me pare non solo un'indebita autoassoluzione, ma soprattutto un inganno ideologico: l'ennesimo, affinché nulla cambi dentro la società meridionale». Il Sud, dunque, è rimasto indietro perché le sue classi dirigenti locali lo hanno lasciato indietro e di volta in volta si sono inventate l'alibi dell'arretratezza del Mezzogiorno per colpa ora del Settentrione, ora della natura, ora degli industriali e sono persino riuscite a utilizzare i loro stessi alibi auto-assolutori per ricavarne risorse, finanziamenti, spese, trasferimenti che in una spirale perversa o in un circolo vizioso, soprattutto con le Regioni, hanno continuato a far arretrare il Sud sul piano civile e sociale, istituzionale e politico.
L'autore del libro è uno storico dell'economia ma il suo saggio ha un merito: non riduce la «questione meridionale» ad una variante dell'economia. Al contrario, evitando ogni tipo di «determinismo», evidenzia il «fattore umano» e i motivi civili e politici del caso meridionale. In questo modo la «questione» diventa ciò che è sempre stata: un capitolo della più grande e importante storia nazionale. Viene in mente quanto diceva sul finire dei suoi anni Norberto Bobbio in un articolo su La Stampa intitolato «La democrazia a pallettoni»: «Come uomo del Nord, anche se non nordista, perché ho avuto una educazione risorgimentale... e debbo gran parte della mia formazione civile a uomini del Mezzogiorno come Croce e Salvemini, ho sempre esitato a esprimere il mio parere su una questione così complessa e controversa come la questione meridionale. Ma oramai una cosa è diventata ai miei occhi sempre più chiara, e sempre più difficilmente confutabile: la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali». Non è un caso che proprio Benedetto Croce non fu un meridionalista e con la sua solita chiarezza parlò, piuttosto, del dovere della borghesia meridionale. Ebbene, la borghesia meridionale ha trasformato il meridionalismo in un'ideologia.

L'avanzamento civile del Sud dipende dalla capacità dei meridionali di liberarsi dall'ideologia meridionalista.

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