Cultura e Spettacoli

Il romanzo dimenticato che racconta il sangue dei vinti

Un autore irregolare, solitario, fuori dagli schemi. Un romanzo dimenticato. Con "Tiro al piccione" Giose Rimanelli ha consegnato alla letteratura italiana l'unico romanzo dei vinti

Il romanzo dimenticato che racconta il sangue dei vinti

"Fu quando sparammo i primi colpi che Elia disse: - Questa volta ci siamo. Poi, tra una scarica e l’altra, mi dettò il suo indirizzo [...] io gli dettai il mio. [...] Sparavano giù raffiche che era un’ira di Dio, e ridevano. [...] Fra le loro voci una era più reboante. Diceva con ira: - Tirate al piccione! E il tenente Giordano era morto, subito dopo che quella voce aveva gridato. Ed era morto il sergente Berneschi di Firenze, il maresciallo Bassan, ed era morto il sergente Elia. Tutti colpiti alla testa dal cecchino infallibile. Il loro berretto con l’aquila sulla visiera era rotolato sulla neve".

Sono le crude, tragiche battute finali dell’ultima battaglia, quella sul passo del Mortirolo, tra un plotone già decimato della legione d'assalto "M" Tagliamento e una formazione di non meglio identificati partigiani appoggiati dall’artiglieria degli Alleati. Sono gli ultimi giorni di aprile, la guerra in Italia è formalmente finita, ma sui quei monti si spara e si muore ancora. Tra chi si raccomanda ai propri santi, chi se la fa addosso, chi bestemmia, chi ride e chi piange, c’è chi gioca al tiro al piccione, mirando al gagliardetto della Rsi che campeggia sui berretti di giovani soldati mandati al macello.

Proprio da questa scena, il titolo del libro: Tiro al piccione. Un romanzo dimenticato e semi sconosciuto, così come dimenticato e semi sconosciuto è l’autore, Giose Rimanelli, molisano, classe 1925, venuto a mancare nel 2018 a Lowell, Massachusetts. Dimenticato per una serie di circostanze, non ultima quella di aver militato nella Repubblica sociale e di averne scritto, ma più probabilmente cancellato per non aver mai davvero messo radici in nessun luogo così a lungo da lasciar traccia della propria presenza, e forse – anzi, molto probabilmente - per ripicca, per aver messo alla berlina con parole sferzanti e con un’opera godibilissima (Il mestiere del furbo, definito dal critico Eugenio Ragni come un “suicidio annunciato”) il jet-set letterario degli Anni Cinquanta, diviso tra Milano (sede dei grandi gruppi editoriali) e Roma (sede di blasonati salotti letterari). Insomma, Giose Rimanelli non stava simpatico. O meglio, non faceva nulla per risultare tale. Irregolare, ramingo, solitario, geniale. In vita viaggiò in lungo e in largo: prima in Italia, poi per il mondo, tanto da finire ad essere molto più conosciuto – e apprezzato – negli Stati Uniti che non in Italia (Stati Uniti dove è stato per molti anni uno stimato professore universitario di italiano e di letteratura comparata in diversi e prestigiosi atenei).

Nato a Casacalenda, il Rimanelli bambino si ritrova in un ambiente ricco di contraddizioni: da un lato il Molise arcaico, isolato dal mondo, in cui avverte la presenza serpeggiante di una violenza insita nelle cose e nelle persone (in primis in suo padre, ma anche nel rapporto con l’altro sesso); dall’altro, una famiglia che l’emigrazione (e, suo malgrado, l’avventura) ce l’ha nel sangue: sua madre è canadese, suo nonno Dominick è nato a New Orleans, suona la tromba jazz e nel 1891 assiste inerme al linciaggio di undici italiani rinchiusi nella prigione locale.

Da questo contesto assolutamente originale, Giose Rimanelli fugge a diciotto anni, unendosi a una colonna di camion della Wermacht in ritirata dopo lo sbarco degli Alleati a Salerno. La sua è una non-scelta, se in quella notte di fine settembre 1943 fosse passata una colonna di ufo, probabilmente oggi avremmo un romanzo sui Bastioni di Orione e le navi da guerra in fiamme, ma tant’è. Rimanelli si unisce ai tedeschi non per ideologia, né per inseguire il mito della guerra. Semplicemente vuole fuggire via. Fuggire dalla prospettiva di un matrimonio riparatore, fuggire dalla noia di un luogo senza stimoli, fuggire dai propri anni, ed è così che si ritrova a Venezia. Qui, viene catturato dalle SS e finisce ai lavori forzati a Villafranca. Fuggito, arriva a Milano, dove viene preso dalle Brigate Nere e – per sfuggire alla fucilazione dopo essere stato condannato come disertore – si arruola nella neonata Repubblica sociale.

Anche qui, nessuna ideologia, ma solamente le circostanze:

"- A quale reparto appartieni?

- Brigate Nere, bel corpo eh?

- Eh, sicuro – dissi, ma non sapevo in realtà cosa fossero le Brigate Nere. Non ne avevo mai sentito parlare fino a quel momento".

L’esperienza della guerra civile Giose Rimanelli la fa raccontare al suo alter ego, Marco Laudato, il protagonista di Tiro al piccione. Un romanzo duro, violento, tragico. L’unico romanzo pienamente degno di questo nome della “letteratura dei vinti”, cioè di quegli autori che militarono dalla parte dei fascisti, anche laddove (come in questo caso) parlare di fascismo sarebbe una forzatura. Come ebbe a scriverne Raffaele Liucci nel 1997 sulla rivista L’Italia contemporanea, in questo romanzo c’è “l’assenza assoluta [...] di qualsiasi riferimento alla Bella morte, all’epos guerriero, all’idea revanchista, disperata, intrisa di sangue e onore del combattimento”, mentre – sempre Luicci, stavolta in Studi Piacentini – in Tiro al piccione troviamo “la punta di diamante di una letteratura della zona grigia, espressione di coloro che, pur essendo stati costretti a militare sotto le insegne di Salò, sono però difficilmente inquadrabili nel campo del fascismo o dell’antifascismo, perché tenacemente ancorati ad un humus valoriale non assimilabile a rigide e prescrittive divisioni politiche”.

E che non fosse un romanzo politico l’aveva detto tra i primi anche Cesare Pavese, non proprio l’ultimo degli arrivati. Fu lui, infatti, il primo a credere nelle capacità autoriali di Rimanelli che – rientrato fortunosamente nella casa paterna nel 1945, dopo essere fuggito da un convoglio alleato che l’avrebbe condotto a trascorrere una prigionia in Africa – scrisse una prima bozza di Tiro al piccione nei mesi immediatamente successivi alla terrificante esperienza della guerra, al chiuso della sua vecchia stanza, con suo padre che non gli perdonava l’essere scappato di casa e sua madre terrorizzata da ciò che in paese si sarebbe pensato di lui che aveva militato tra le fila dei perdenti. Rimanelli maneggiò questa “materia incandescente” [il termine è del critico Sebastiano Martelli] appena prima di riprendere il largo e ricominciare i suoi viaggi. Roma, Milano, Parigi, Nord Europa. Giose Rimanelli non si dà tregua: lavora come ghostwriter per giovani laureandi, fa lo sparring-partner in una palestra di pugilato, insomma, sbarca il lunario come può. E nel frattempo legge. Tra i suoi autori preferiti Faulkner, Hemingway, Pavese, Vittorini [reminiscenze che troveranno spazio nelle successive rielaborazioni del suo romanzo]. In questi anni entra in contatto e stringe amicizia con diversi intellettuali, tra i quali Carlo Muscetta, Francesco Jovine, Carlo Levi, Giuseppe Ungaretti e il già citato Cesare Pavese. Sarà proprio quest’ultimo – non senza avergli prima mosso acute critiche per lo stile ancora aspro – a perorare la pubblicazione di Tiro al piccione nella collana I Coralli di Einaudi.

Quando Pavese si uccise, il romanzo era già in tipografia, ma qualcosa si ruppe, le dinamiche interne alla casa editrice cambiarono con un soffio di vento e il libro di quel giovane che “aveva visto la Resistenza dalla parte sbagliata” non vide la luce.

Bisognerà attendere il 1953, quando Elio Vittorini portò a pubblicazione Tiro al piccione con Mondadori. L’anno successivo, l’opera venne pubblicata in America con il titolo The day of the lion, ottenendo un successo sicuramente maggiore di quello decisamente tiepido riscosso in Italia. Nel 1961 ne fece un film Giuliano Montaldo, ma la critica fu severa e alla pellicola non arrise alcun successo. Da quel momento in poi, di questo romanzo “sbagliato” quasi si persero le tracce, fagocitato dalla letteratura resistenziale, oscurato dal suo stesso autore che – come detto qualche riga fa – non contribuì a coltivare rapporti utili per farsi strada nell’ingessato panorama culturale dell’epoca.

Un rinnovato interesse si registrò nel 1991, quando Tiro al piccione venne ristampato da chi avrebbe dovuto dargli i natali, cioè Einaudi, nella collana Gli Struzzi. La nuova edizione si arricchiva della prefazione del critico Sebastiano Martelli, tratta da un saggio che verrà in seguito ripreso e pubblicato con il titolo “Un irregolare nella letteratura degli anni Cinquanta” nella Rimanelliana, una raccolta di saggi su Rimanelli pubblicata nel 2000 dalla Forum Italicum, il centro per gli studi italiani dell’Università di New York. Tuttavia, anche in questa occasione Tiro al piccione restò un prodotto di nicchia, un libro per cultori, una di quelle opere di cui si trova traccia solamente nei testi specialistici e universitari. Ed è un vero peccato, perché la scrittura di Rimanelli è essenziale ma potente, vivida, truculenta. Tiro al piccione è un grande romanzo di guerra come possono esserlo Addio alle armi (l’eco di Hemingway è molto forte) e Il partigiano Johnny di Fenoglio; un romanzo che – come ebbe a dire Calvino – ci mostra “un carnaio spietato ed osceno”, quello della guerra tra italiani, più precisamente, tra ragazzini italiani. Sì, perché in Tiro al piccione c’è tutto l’orrore di una generazione mandata al massacro senza un vero perché: "Hanno raccolta la polvere e ce l’hanno buttata addosso, e di noi hanno fatto le nuove legioni, ci hanno riempita la bocca di canti e ci hanno detto di andare. Andare! Ma andare dove? Non abbiamo mai saputo dove dovevamo andare. Ci hanno mandati a morire, a morire massacrati, tutti insieme".

E ancora: "Nel mio battaglione ci sono ufficiali di vent’anni e soldati di quindici. Tutti gli uomini di questa guerra odiosa sono giovani e hanno tanti anni davanti a loro, anni felici da vivere. La mascotte della mia compagnia ne ha tredici, di anni, e conosce meglio il mitra che la faccia di sua madre. La mascotte è nato a Tripoli e i suoi genitori sono là. Il Duce l’ha fatto portare nei collegi italiani insieme a mille altri ragazzi della sua età, per dargli un’educazione littoria. Ora va ai rastrellamenti e spara contro gli uomini come se fossero cani, e peggio. E tutti così gli altri. Ammazzano la gente da cani e sono ammazzati da cani".

Il romanzo di Giose Rimanelli è un viaggio all’inferno lucido e analitico. Un percorso nel ventre della guerra, tra sentieri di odio e di paura, tra pazzi esaltati, avventurieri, criminali prestati alla camicia nera o al basco con la stella rossa, bambini soldato e giovani uomini invecchiati troppo presto. Non c’è riscatto, in Tiro al piccione, non c’è lieto fine, ma soltanto i fatti – nudi e crudi – e domande apparentemente senza risposta:

"Passando per i paesi i ragazzi sventolavano i fez, ma la gente ci guardava senza rispondere. Spesso mi domandavo perché la gente ci guardasse senza rispondere, ma non riuscivo a tirar fuori delle conclusioni. Poi mi venne un pensiero: e se la gente ci odia?"

Fa impressione pensare che queste sono parole scritte da un ragazzo di vent’anni. Devono aver fatto impressione allo stesso modo anche a Pavese, Vittorini, Sapegno, Calvino. Uomini di sinistra, in alcuni casi addirittura partigiani, ma che compresero come non si potesse cancellare dalla storia della letteratura la testimonianza di chi aveva combattuto dall’altra parte. Non è bastato. Ancora oggi Giose Rimanelli resta un irregolare, anzi di più, un semi sconosciuto.

Ed è un vero peccato.

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