Cultura e Spettacoli

Tobias Wolff, sul breve lui la sa più lunga di tutti

Il calcio è sempre una buona metafora. Per giocare sul campo largo, a undici, bisogna avere dei buoni polmoni. Nel campo stretto, cinque contro cinque, conta la tecnica.
Allo stesso modo, per scrivere un romanzo basta cacciare la palla avanti, correre, poi qualcosa accadrà, tutto si può aggiustare. Un racconto non concede scappatoie. O sai dribblare la banalità con spietata presunzione, oppure niente, non funziona, datti al romanzo. «Quando ero un ragazzino, guardando le fotografie di Hemingway durante un safari o mentre pescava nell'Idaho e quelle di Fitzgerald a Parigi, pensavo a che vita eccitante fosse quella di uno scrittore. Non sapevo che quello è quello che fa uno scrittore quando non scrive», dice Tobias Wolff intervistato dalla Paris Review, dieci anni fa. L'arte del racconto chiede una dedizione totale, che rasenta la follia, perché «l'artista è un tizio che lavora sodo».
In effetti, a dire la verità, calcisticamente parlando, lo scrittore di racconti è un portiere: equilibrista sulla linea di confine, in bilico tra gioia e delirio, coltivato nella solitudine, non può sbagliare. Come i portieri, gli scrittori di racconti fanno vita a sé. Come gli uomini di Dio, si passano il carisma: uno inietta nell'altro il talento, tu sarai il mio successore. Così Hemingway studiava Anton Cechov, il San Paolo di tutti gli scrittori di racconti, Raymond Carver studiava Hemingway con il poster di Cechov appeso in camera e lo stesso Carver recensì con entusiasmo, nel 1981, la prima raccolta di racconti di Tobias Wolff. Quando si dice geneaologia. Per mettere patriarchi nel falò: Julio Cortazar esaltava Horacio Quiroga il quale, nel suo decalogo del perfetto scrittore di racconti (era il 1925), intima «Credi nel maestro - Poe, Maupassant, Cechov - come in Dio stesso». C'è qualcosa di liturgico nell'arte di redigere racconti.
Che strana strategia quella di Einaudi: getta in libreria un tomo di Tobias Wolff, «fra i grandi maestri della short story» (così l'agiografica didascalia) togliendone cinque (tra cui due pezzi grossi, Il colpevole e Nell'esercito del faraone), forse li ristamperanno, chissà, alchemici misteri editoriali. La nostra storia comincia (Einaudi, pagg. 298, euro 21) è la raccolta dei più bei racconti di Wolff, «la prima di queste storie è stata scritta una trentina di anni fa, l'ultima solo l'altr'anno», specifica l'autore in una nota ad apertura di libro. Solo che la noterella è del 2007, l'altr'anno era il 2006, il libro esce negli States nel 2008, da noi sei anni dopo, ecco la distanza che ci separa dalla civiltà libraria evoluta. Nel frattempo Tobias Wolff, che di anni ne fa settanta il prossimo anno, un'autorità letteraria negli Usa, chissà cosa sta scrivendo, arriviamo sempre troppo tardi.
Tra Fargo dei fratelli Coen e Chi l'ha visto?, questo è l'effetto che fanno i racconti di Wolff. L'ingresso nella vita schifosa di uomini modesti, annientati dall'esistenza. Ne esci - se ne esci - con gonfiori al cuore, come se ti avessero menato con un panno gelido, intinto nell'aceto. Una delle storie più belle s'intitola Cacciatori nella neve, ti immagini le epiche scene iniziali de Il cacciatore di Michael Cimino, invece niente, c'è un ciccione, Tub, che per un nonnulla spara al compagno di caccia, il quale, agonizzante, viene trainato sul furgone guidato da un terzo, Frank, che racconta al grassone di sbattersi una sedicenne e per questo lascerà la moglie. I due, storditi dal nulla, dimenticano di portare l'amico ferito all'ospedale. In Leviatano, invece, una strafatta racconta al clan di amici depressi e storditi dalla coca di quando portò un bimbo Down in barca a guardare le balene e una specie di Moby Dick «ostile, enorme e puzzolente», che «emetteva un verso agghiacciante, come di uno che piange sott'acqua», rischiò di capovolgere la chiatta. Ed è lì, nel bel mezzo del racconto, che schioccano frasi assolute, «a volte fare qualcosa di veramente orrendo è meglio che lasciar scivolare le cose e basta», che ammutoliscono. Ci sono pezzi meno riusciti, certo - il banale La porta accanto, ad esempio, un elogio però all'epiteto con cui viene nominata la nerchia, «il vecchio signor Florida» - ma Wolff è perfetto per gli aspiranti scrittori di racconti. Incipit diretti, mai un aggettivo di troppo, e realtà, realtà, realtà, tanti badili di realtà da ossidare i sentimenti. Entri dentro la vita - come quella di Mallan in Il beneficio del dubbio, impeccabile project evaluator per la Nestlè, separato dalla moglie dopo che alla figlia hanno diagnosticato un tumore al cervello, che in una Roma devastata dal traffico stende uno zingaro che gli vuole rubare il portafogli, ma colto da una colpevole forma di pietà lo accompagna in taxi nella sua baraccopoli - e non sai redimerla e torni nella tua vita con uno sgradevole senso di frustrazione. D'altra parte lo scrittore di racconti fa così, «prende i personaggi per mano e li conduce con fermezza fino alla fine», come insegna Quiroga, ti lascia sul fetido orrido dell'esistenza senza un briciolo di pietà. Convincendoti che non c'è giudizio divino che possa scalfire quello dello scrittore.
Chissà perché negli States gli scrittori di racconti sono dei divi e da noi dei somari perché, come dicono gli editor, i racconti non vendono. Nei paesi civili la grandezza di uno scrittore si valuta sempre dalla tenuta di un racconto. Secondo gli standard il racconto più bello del Novecento è Le nevi del Kilimangiaro di Hemingway. Io preferisco L'orso di William Faulkner. E ai racconti di Cechov antepongo Le memorie di un pazzo di Lev Tolstoj. E in Italia? Secondo Harold Bloom i più grandi scrittori di racconti sono Tommaso Landolfi e Italo Calvino, «perché nella loro arte hanno raggiunto qualcosa di molto vicino alla perfezione».

Ma le Operette morali di Leopardi restano il più ineffabile libro di racconti che c'è, altro che Wolff.

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