Cultura e Spettacoli

Torna «La morte dell'erba» di Sam Youd (alias John Christopher), classico e profetico

«La prima cosa che un narratore deve attuare è la sospensione dell'incredulità nel lettore», diceva lo scrittore inglese John Christopher in un'intervista del 1984 citando Coleridge. Difficile, quando lo scrittore in questione si chiama Sam Youd, ma si firma, oltre che John Christopher, Christopher Youd, Stanley Winchester, Hilary Ford, William Godfrey, Peter Graaf, Peter Nichols o Anthony Rye. Divertente, se la sua serie di maggior successo - ridotta per la tv negli anni '80 - si chiama I Tripodi e immagina una Gran Bretagna del futuro in cui l'umanità è schiavizzata da alieni invasori che viaggiano su giganteschi veicoli a tre gambe. Esaltante, se i generi che ama praticare oltre alla letteratura per ragazzi sono la fantascienza apocalittica e post-apocalittica con tale precisione da sfiorare la preveggenza. Scomparso nel 2012, Youd firmò come John Christopher uno dei suoi capolavori, La morte dell'erba , tradotto da Mario Galli per Beat edizioni (collana Super Beat, pagg. 208, euro 13,90), romanzo in cui la preveggenza si mostra ai suoi massimi livelli.

Protagonista di quello che, pubblicato nel 1956, è diventato in mezzo secolo un classico della letteratura senza genere, è un virus asiatico: il Chung-Li, responsabile della distruzione di ogni vita vegetale. Ora, in quella che, come ben sottolinea Robert Macfarlane nell'introduzione al romanzo, possiamo chiamare «l'era delle epidemie», che ci ha familiarizzati con afta epizootica, febbre catarrale, influenza aviaria, SARS e ovviamente Ebola, con vie di trasmissione, aree di sorveglianza e vaccinazioni di massa, che effetto ci può fare un virus, per quanto terribile, inventato oltre sessanta anni fa? In questo sta il genio di Youd: il Chung-Li non trasforma solo l'equilibrio naturale, ma anche quello di una civiltà. Ed è questa mutazione il cuore magistrale del romanzo.

L'impotenza di una struttura sociale, che nel caso specifico di La morte dell'erba è la Englishness, ma che potrebbe essere l'europeità o l'americanità, è la vera responsabile non solo della vendetta della natura o dell'«apocalisse floreale», ma più di tutto della soppressione della memoria morale. L'ingegner John Custance e la sua famiglia sono protagonisti all'inizio del libro di una vita idilliaca in campagne inglesi tutte clorofilla e tè delle cinque, perfette per una cartolina o per il cricket, l'habitat di Jane Austen, mica di M. Night Shyamalan. Ma quando il Chung-Li travolge le loro esistenze e quelle del Paese, quando si arriva a progettare il lancio di bombe nucleari per controllare l'infezione, quando gli sciacalli depredano le abitazioni abbandonate dopo la carestia, i rispettabili Custance dimenticano l'appartenenza alla middle-class , sostituiscono l'umanesimo liberale con il proto-darwinismo, rinnegano se stessi.

È straziante sospendere l'incredulità, quando un grande scrittore usa la carica virale per innescare la ferocia e sposta l'epicentro dell'apocalisse dal pianeta all'animo umano.

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