Cultura e Spettacoli

"Il vero effetto speciale è quello che non si vede"

John Knoll, inventore di Photoshop, ora è dietro le quinte di film supertecnologici: "Presto sarà impossibile distinguere un'immagine falsa. Cambierà il concetto di realtà"

"Il vero effetto speciale è quello che non si vede"

nostro inviato a Torino

Ha l'aria dell'americano simpatico e non è per niente nerd. Anzi, sotto la camicia verde e buffamente arabescata mostra un fisico robusto che fa pensare a un ex sportivo. Come il sorriso, tutto denti, che sfodera sotto il pizzetto. Trasmette l'ottimismo produttivista del Midwest (è nato ad Ann Arbor, Michigan, e la parola che usa più spesso è challenge, sfida). Quando parla gesticola molto, picchietta le dita sul tavolo. John Knoll è la vera star della View Conference di Torino (sino a venerdì), l'appuntamento italiano più importante dell'anno per la tecnologia digitale dedicata al cinema e all'animazione. L'aspetto non sarà da geek (da smanettone di computer) ma il suo curriculum è impressionante. All'inizio per hobby ha inventato, con suo fratello, un giochino hi-tech chiamato Photoshop, cambiando per sempre la storia della fotografia. Poi si è dedicato agli effetti digitali per il cinema realizzando, per la Industrial Light&Magic, film come Abys i tre prequel di Star Wars, la quadrilogia dei Pirati dei Caraibi, Rango, Avatar, Hugo Cabret e il recentissimo Pacific Rim. Il tutto per un totale di cinque nomination all'Oscar e una statuetta vinta (con il secondo episodio di Pirati dei Caraibi, cioè La maledizione del forziere fantasma). Difficile trovare qualcuno più qualificato di lui per discutere di reale, virtuale e società dell'immagine.

Come ha fatto a sviluppare la prima versione di Photoshop?

«Lo abbiamo fatto io e mio fratello per hobby. Lui studiava all'università del Mitchigan e si occupava di immagini digitali. Ha iniziato a lavorarci e io ho capito quasi subito le potenzialità di un prodotto così. Per tre giorni a settimana mi ci sono messo anch'io che lavoravo già nel cinema. Certo, non ci immaginavamo un successo così grande. Volevamo uno strumento che consentisse a tutti di sviluppare la loro creatività senza bisogno di tecnologie costosissime».

Nell'87 era possibile sviluppare un programma del genere senza disporre del supporto di una grande società. E oggi?

«Ora questo tipo di sviluppo si può avere soprattutto nell'ambito delle app per telefonini o tablet. Lì si è spostata la creatività dei programmatori indipendenti. In quel settore conta ancora tantissimo avere l'idea giusta. È questo che amo di questo tipo di tecnologia».

Come evolveranno i programmi di modifica digitale delle immagini?

«A un certo punto non sarà più possibile capire se un'immagine è stata modificata o no. Questo cambia il concetto di realtà. Una tecnologia del genere comporta un gran senso di responsabilità. Può avere effetti positivi, espandendo la creatività, ma anche aspetti negativi. Ci sono un sacco di implicazioni legate all'idea di vero e falso».

Tra gli aspetti negativi?

«Ci sono un sacco di star che ormai sono “Photoshop addicted”, hanno un cattivo rapporto con il loro aspetto reale... Lo dico in modo semi-serio: la loro propensione al photo editing andrebbe messa sotto controllo, e forse questo non vale solo a Hollywood».

Il futuro degli effetti visivi?

«Difficile dirlo. Si parte sempre dal risolvere lo specifico problema di un regista o di un film. Prima viene la necessità, poi la soluzione tecnologica. E la specifica soluzione diventa la base per qualcosa d'altro. Se invece mi chiede quali sono gli sviluppi che vorrei in senso più generale... beh vorrei che a queste tecnologie si interessassero anche gli artisti, non solo il mondo del cinema».

Andiamo verso una realtà sempre più virtuale e un virtuale sempre più reale?

«Quando penso un effetto speciale parto sempre da quello che esiste, da come le cose si muovono nel mondo intorno a noi. Cerco di non prendere ispirazione da altri film. Si tratta di creare qualcosa che non esiste ma che sembra esistere. A esempio, se pensiamo ai robot giganti di Pacific Rim la cosa più complessa è stato farli muovere alla velocità giusta. È la velocità con cui si muove che rende credibile un robot alto come un grattacielo. Lavorare agli ultimi Star Wars con Lucas da questo punto di vista è stata una grande lezione. Lì si trattava proprio di dar corpo a una realtà parallela».

Solo fantasia sfrenata?

«Gli effetti speciali funzionano se accompagnano una bella narrazione. Una brutta storia con begli effetti speciali resta una brutta storia. E poi la maggior parte degli effetti non si vede. Ormai ci sono in quasi tutti i film. Servono ad allargare un set, a correggere la luce di una ripresa, a porre sullo sfondo oggetti che non ci sono, sostituiscono le comparse...

Il miglior effetto potrebbe essere proprio quello di cui non ti sei accorto».

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