DE SADE Processo alla perversione

Il castello e la cella. La reclusione di pietra e, per contrasto, il disperato anelito al volo liberatorio, intreccio kafkiano che dal conte di Cagliostro, deciso a sgretolare con il sogno alchemico i massi di San Leo, ci porta all’abate Faria, con la sua eterna evasione da If trasformata in credo di vita, all’arcidiacono Frollo, che sulle muraglie del budello monastico nella vertigine di Notre Dame incide vie di fuga in forma di graffiti filosofali e di dichiarazioni d’amore all’impossibile bella, la derelitta Esmeralda. Davanti al nome proprio, i reclusi eccellenti sfoggiano sempre un (vero o presunto) titolo, nobiliare o religioso.
Come Donatien-Alphonse-Françoise de Sade, che gli apologeti sublimano a «marchese divino», ma che era conte, erede di un’aristocrazia che risaliva a Hugues II, marito di quella Laura de Noves che in Valchiusa aveva i capei d’oro all’aura sparsi e ispirò il più puro canzoniere di ogni tempo. Un terzo dei suoi settantaquattro anni, De Sade lo sgranò in un rosario di celle da Vincennes a Saumur, da Pierre-Encise a Molians, passando dalla Bastiglia, poco prima della demolizione popolare, fino all’ultimo approdo, il penitenziario criminale per folli di Charenton. Queste le sue prigioni. Il castello è invece quello (fantasioso, modellato sul feudo provenzale di Lacoste, dove lo scrittore braccato cercò rifugio) che racchiude le 120 giornate di Sodoma, la scuola di libertinaggio, il monumentale vangelo della perversione cui Sade mise mano nel 1780, e il cui manoscritto rimase ai ferri della Bastiglia, dimenticato (o omesso) dal suo stesso autore che ingannando gli ozi forzati della galera stilò nel 1788 un ragionato catalogo degli scritti, un diluvio di volumi in ottavo che abbracciavano romanzi, racconti, saggi miscellanei, anche di politica, e opere destinate a quella che era forse l’inclinazione artistica più autentica, il teatro.
Sade amò la ribalta. Sia quella postribolare in cui mise in scena scabrose vicende per sbarcare il lunario in tempi di ristrettezze, sia, soprattutto, quella in cui l’esecrato artefice del «sadismo» curò la regia del suo stesso film, nel degrado morale della società francese prerivoluzionaria, il calderone di ipocrisia e dissolutezza frenetica, e quasi inebriata dal presagio della catastrofe, che segnò gli anni finali della monarchia, quando i giochi sporchi si facevano nella alcove delle Pompadour e Maria Antonietta teneva sul comodino, rilegata, una copia delle Relazioni pericolose di Laclos, raffinato breviario di sconcezze, bandito dalla censura ufficiale.
«Libertino» è uno stereotipo tranquillizzante, ma anche sviante e riduttivo, per il personaggio Sade. Nella sua biblioteca campeggiava l’opera completa, gli ottantanove volumi di Voltaire. Poderosi studi moderni mostrano che le sue bislacche fantasie sono tutt’altro che insanguinate figurine di carta, luride pagine da leggersi con una mano sola. Alle spalle, fermenta un sistema di pensiero organizzato che affida alla natura, e ai suoi ferini e vergini impulsi (prima fra tutti la crudeltà, motore del piacere che in un cosmo in cui non splende nessuna luce divina garantisce, unico, l’autoconservazione e forme spericolate di rinascita) il compito di forgiare non l’uomo, ma il superuomo, ebbro di quella forza e libertà che il perbenismo quotidiano non può che bollare come crimine, frenesia, barbarie.
Questo impianto di pensiero conduce fatalmente alla dissociazione, all’ambiguità. Le cronache ci parlano di una dolcezza di sembianti, un’affabilità di modi sotto i quali il conte custodiva la sua scienza applicata del vizio, schematizzato in un’ossessiva enciclopedia classificatoria. Una duplicità invasiva, che sembra riflettersi anche sui suoi appassionati biografi, come Jules Janin che nel suo smagliante Il marchese de Sade, ora proposto dalla Salerno Editrice (pagg. 116, euro 7), in prosa a colpi di maglio che ricordano le mazzate erculee di Hugo, in superficie esecra il mostro, ma al fondo ne incensa l’eccezionalità. Anche Paul Jacob, che firma l’appendice La verità sui due processi penali al Marchese de Sade, sembra volerci accompagnare sull’orlo del nero baratro, quasi per offrire il brivido del deliquio, dell’abbandono.
Oggi gli psicologi dell’età evolutiva cercherebbero attenuanti in un’educazione troppo rigida (gesuiti al liceo, militari alla scuola dei cavalleggeri), nell’imposizione di modelli aviti (tra cui la celeste Laura petrarchesca). E qualche tribunale comprensivo concederebbe sconti di pena.

Non glieli diede la Francia di Napoleone, l’uomo che teneva il codice in una mano e consultando l’orologio nell’altra si compiaceva che in tutte le scuole del Paese, in quel momento, si stesse svolgendo esattamente lo stesso compito di matematica. Nel 1801 seppellì il trasgressore nella gattabuia dei dementi, e gettò via la chiave.

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