Dietro ai barricadieri anti-Gelmini la regia occulta dei centri sociali

Milano Grande la confusione sotto il cielo. Questo vien da dire dopo una giornata immersi nel magma dei movimenti studenteschi milanesi. Girando per gli atenei, le scuole e i centri sociali si incontra di tutto.
Statale ore 12. Un gazebo di giovani del Popolo delle libertà viene smontato. Nessuna violenza, hanno finito e se ne vanno, sorvegliati dagli agenti della celere. Ma intanto parlano con i ragazzi della protesta universitaria, quelli che temono i tagli della legge 133. I toni si accalorano, ma è una discussione consapevole. Stralci: «Ma ti pare che io voglia difendere i docenti nullafacenti?». «E a te pare che io voglio tagliare tutto? Questi sono tagli sani e il privato funziona, le fondazioni funzionano...». «Dipende, intanto i tagli colpiscono chi lavora...». «Ma se il merito è uno dei pallini della Gelmini...».
Quando proprio si arriva alla violenza verbale: «Ma stai zitto tu, che sarai un figlio di papà... Verrai dalla Cattolica o dalla Bocconi...». «Veramente io lavoro anche, faccio il panettiere...». «Ah (sguardo colpevole) scusa...».
Quando il “parlamentino” finisce andiamo nei chiostri con Marco Bettoni di Sinistra Universitaria. Fuma sigarette rollate, racconta la sua contestazione. «La protesta è a più livelli, noi, i collettivi, teniamo delle specie di stati generali... Vorremmo riuscire ad avere un dialogo con le istituzioni, almeno la maggioranza di noi. Ma anche voi dei giornali non aiutate». A chiedergli in che senso: «Fate da megafono solo a quelli che si sono messi in mostra con i tafferugli a Cadorna, come quella parte di collettivi collegati al centro sociale il Cantiere. Fornite spazio a una minoranza che ha bisogno di visibilità e i problemi veri...». Parla di contatto con le istituzioni che si è perso, di numeri e cifre. A buttar lì la provocazione sul nuovo ’68 ti guarda strano: «È un titolone, come “rivolta di classe”. Io vorrei sentir parlare di tavoli di confronto. Di un’opposizione che recita il suo ruolo e di una riforma discussa con noi. Su certe cose ci guardiamo bene dal difendere lo status quo: prof che non ci sono, università spuntate come funghi, corsi di laurea a pioggia... Ma come fanno a intervenire se prima non parlano con chi queste cose le vive?». Su quelli delle superiori, che sono lo zoccolo duro di ogni protesta, glissa: «Sono un altro mondo, prova a parlarci».
E questo si trasforma in un lavoro complicato. Una volta intercettato Gian Marco del collettivo del liceo Manzoni si ha l’impressione di aver a che fare con un qualcosa di molto più sfuggente: «Prima facciamo la riunione poi diramiamo un comunicato, poi ti dico...». Il ti dico però non arriva mai. Scopriamo che il coordinamento si riunisce al centro sociale il Cantiere (quelli degli scontri di Cadorna). Lì i “grandi”, quelli che non sono studenti medi, quando vedono entrare un giornalista de il Giornale restano basiti, e rispondono con un lessico preistorico: «Cioè gli atti del movimento parlano da soli... Insomma la fattualità della protesta... Ecco un giornalista del tuo giornale... Non è che vogliamo cacciarti via, ma dire che siamo contenti di averti qui no. No con voi non parliamo, ci fate il giochino...».

Nessuno fa giochini, semplicemente il fatto che gli studenti medi, oggettivamente i meno informati, si riuniscano da loro, racconta molte cose. Come è chiaro che l’input di non parlare con noi è subito diramato ai “piccoli” e da allora a ogni telefonata sono solo squilli a vuoto.

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