Cultura e Spettacoli

Dietro la cinepresa e di fronte al potere

L’uscita in italiano delle Memorie di Sergej M. Ejzenštejn è un avvenimento straordinario. Infatti, dopo la pubblicazione di amplissima parte della produzione saggistica e letteraria dell’autore russo - specie a cura di Pietro Montani - questa ulteriore, doviziosa silloge viene a definire un quadro esauriente delle vicende biografiche e dell’originale azione teorica, della creatività del cineasta.
Nato a Riga (Lettonia) da genitori d’origine ebraica-tedesca il 13 gennaio 1898, Ejzenštejn, s’inscrive nel ’13 all’Istituto di ingegneria di Pietrogrado, ma nella primavera del ’18 lo scoppio della rivoluzione lo trova ingaggiato nei ranghi dell’Armata Rossa come disegnatore di manifesti di propaganda e attivista culturale. Smobilitato dall’esercito, s’inserisce nell’attività del Prolekult (primo esempio di teatro operaio) e quindi nelle esperienze più innovatrici di quegli anni tumultuosi (la rivista LEF, organo del fronte di sinistra delle arti; la Fabbrica dell’attore eccentrico; futurismo, costruttivismo, ecc.). Frattanto l’attivissimo Ejzenštejn coltiva le proprie conoscenze storiche-letterarie (da Leonardo da Vinci a Marx, da Joyce a Freud). E dalle frequentazioni del teatro trarrà dal grande Mejerochold (geniale innovatore scomparso nelle purghe staliniane degli anni ’30) gli insegnamenti più utili e significativi.
Nel ’25, che Ejzenštejn esordisce nella regia con Sciopero, praticando da subito un sincretismo stilistico destinato a suscitare contrastanti reazioni da parte dell’intellighentia rivoluzionaria e del potere burocratico-politico. L’impiego del «montaggio delle attrazioni» (la libera commistione di immagini e suggestioni emotive, secondo una dialettica tutta immediata, coinvolgente) imprimono al film una dimensione del tutto nuova. Sciopero è l’emblema del cinema della Rivoluzione d’Ottobre, riassumendo - oltre alla traccia narrativa incentrata sullo scontro fra masse operaie e repressione poliziesca - la nativa poetica del cinema di Ejzenštejn permeata, sì, di realismo, ma arricchita d’ogni accensione metaforica e fantastica.
L’anno dopo è la volta della celeberrima Corazzata Potëmkin, ove un epico episodio della fallita rivoluzione del ’5 - l’ammutinamento dei marinai della nave della flotta zarista viene ferocemente represso, anche se il popolo di Odessa e i restanti equipaggi in rada solidarizzano coi rivoltosi - si dispone sullo schermo come una potente raffigurazione di radicali scontri di classe. Nel 1927 Ejzenštejn riceve l’incarico di realizzare un film per celebrare il decennale della rivoluzione trionfante. Nasce così Ottobre, opera composita e complessa arricchita da spunti sperimentali e digressioni allegoriche di polivalente significato. Ejzenštejn motivò così le sue eccentriche scelte «Il film... è stato realizzato per mostrare tutti i giorni il vitale e permanente giubileo della vittoria d’ottobre».
Altra controversa realizzazione ejzenštejana risale al ’29, con Il vecchio e il nuovo, sorta di epopea didattica - negli intenti della committenza burocratica zdanoviana - che l’autore, ben coadiuvato dal grande direttore della fotografia Edvard Tissé, tramutò in un’agreste, elegiaca «canzone di gesta» sui contrasti e le difficoltà della lotta d’emancipazione delle masse contadine da antiche, desolanti servitù. Ma come scrisse Fernaldo di Giammatteo: «La repressione staliniana e zdanoviana è alle porte, la precettistica del realismo socialista ridurrà al silenzio la “rivoluzione” culturale della sinistra». E sintomaticamente, nel ’31 e nel ’37, Ejzenštejn e tutti i suoi preziosi collaboratori incappano in due battute d’arresto: qualcuno ha parlato di due «capolavori assassinati», ma è un fatto che Que viva Mexico! prima e Il prato (o il lago) di Bezin poi furono due opere presto abortite.
In particolare, la seconda, ispirata a Ivan Turgheniev, avrebbe dovuto celebrare il processo di collettivizzazione a oltranza, ma, vista la discrepanza con le idee di Ejzenštejn a film quasi terminato, l’ottusità burocratica e lo zelo censorio distrussero la pellicola. Non minori guasti subì Que viva Mexico!. Ejzenštejn e Tissé intrapresero sul finire degli anni ’20 una perlustrazione dell’Europa e dell’America (Stati Uniti e Messico) con il proposito di «saldare» le esperienze hollywoodiane con i fermenti del cinema sovietico. La Paramount da un lato e intuibili pressioni dei tycoon più conservatori dall’altro (oltre alla tiepida se non ostile attenzione della dirigenza sovietica) fecero naufragare il progetto, benché fossero già stati girati dagli ottanta ai novantamila metri di pellicola che a vario titolo (Lampi sul Messico, Tempo nel sole, Eizenštejn Mexico Film, ecc.) e arbitrariamente rimontati e ridimensionati, trovarono sommaria, dispersiva distribuzione.
Di ritorno dalla sfortunata trasferta americana, il Nostro affronta l’aulica apologia del passato glorioso della Russia d’antan con Aleksandr Nevskj, dove l’imponente Nikolaj Cerkassov dà vita alla figura carismatica del condottiero medievale vincitore dei Cavalieri teutoni e delle barbare orde mongole. Correvano i tempi di ferro dei processi staliniani e un simile film sembra propiziare l’ipotesi di un già latente «culto della personalità» nella figura dell’eroico Nevskj.
Culto che risalta in Ivan il Terribile (’43), ancora con il grande Cerkassov, ove la saga truculenta incardinata sul dispotico Ivan IV, principe di Mosca, si dispiega tra efferatezze e cruenze. I soliti burocrati videro nella figura di Ivan IV una presunta rampogna alla figura di Stalin.

Così l’impatto del film (e, ancor più, della sua seconda parte, La congiura dei boiardi, addirittura proibita e basta) si risolse, specie in Urss, in una distratta, insignificante sortita.

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