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"Le domande sulla quotidianità dimostrano le difficoltà di integrazione"

Massimo Introvigne: "È un fenomeno tipico di religioni legate a precetti anche sulle scelte minime della vita"

"Le domande sulla quotidianità dimostrano le difficoltà di integrazione"

Massimo Introvigne, sociologo, fondatore e direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur), che cosa pensa del fenomeno delle fatwe online?

«Conosco gli studi sul cyber-islam condotti dal britannico Gary Bunt che ha monitorato siti in inglese attivi in Stati Uniti, Gran Bretagna e Sudafrica. L'aspetto più interessante è che sulla Rete si creano gerarchie parallele che non rappresentano le gerarchie reali. Per esempio, il sito più gettonato secondo Bunt è gestito da un imam di una piccola moschea sudafricana che offre una grande quantità di suggerimenti pratici per la vita moderna. Ha un successo spettacolare perché è ben curato, ma non può essere paragonato con l'autorità, per dire, di uno studioso dell'università Al Azhar».

C'è da stupirsi dell'enorme quantità di domande che vengono rivolte ai giuristi online?

«In Occidente abbiamo un'idea della fatwa falsata da alcuni pronunciamenti oggetto di grande attenzione giornalistica, come quella emessa contro lo scrittore Salman Rushdie o quella che autorizzava a fare sesso con un cadavere. La fatwa non è una legge, assomiglia di più alla risposta di un confessore e spesso riflette l'opinione personale del predicatore. Mi tornano in mente certe rubriche tipo Chiedilo al padre della stampa cattolica. I siti che promulgano fatwe online esistono anche in Paesi a maggioranza musulmana. Il fenomeno riguarda anche i cristiani: più i protestanti, che non hanno la confessione, rispetto ai cattolici. Ma il Vaticano di recente è dovuto intervenire per negare la validità delle confessioni online».

Di che cosa è indice questo fenomeno?

«La quantità di domande è tipica delle religioni legate a una precettistica sistematica e minuta, come appunto l'islam ma anche l'ebraismo».

E il fatto che siano rivolte online?

«È un segno del tempo: questioni una volta affidate al rapporto personale oggi sono trasferite sul web. C'è poi un altro aspetto: i musulmani sono distribuiti ovunque in Italia e in Europa, ma non è così per le persone competenti nel diritto islamico. Ci sono imam che hanno studiato e altri che tengono semplicemente le chiavi dei luoghi di preghiera. L'islam della diaspora è molto virtualizzato, ma le fatwe virtuali si trovano anche nei Paesi islamici perché non sempre si trova risposta in una prossimità geografica».

Sul contenuto delle domande, attinenti soprattutto la vita quotidiana, lei che giudizio dà?

«È un fatto significativo, ma non penso significhi necessariamente volontà di stabilizzazione in Occidente.

Chi ha propositi radicali si rivolge al dark web, alla parte più nascosta di internet, non a siti che sono visibili a chiunque, forze di sicurezza comprese».

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