Cultura e Spettacoli

DOSTOEVSKIJ «Diario» del sottosuolo

Dopo vent’anni tornano in Italia le riflessioni, le invettive e i sogni del grande russo

Ci sono le visioni e le invettive contro i «demoni» che premevano già ai confini della Russia e dell’Europa e che domineranno il secolo a venire. Attenzione, non stiamo parlando di saggia reazione e di spaventato antimodernismo, perché ciò che Dostoevskij «vide» e raccontò era l’orrore storico e mistico che l’umanità impiegò decine di anni e milioni di morti a comprendere: «Ma d’altra parte a me sembra fuor di dubbio che, se lasciaste a tutti questi alti maestri contemporanei la piena possibilità di distruggere la vecchia società e ricostruirla di nuovo, ne verrebbe fuori una tale tenebra, un tale caos, qualcosa di talmente volgare, cieco e inumano, che tutto l’edificio crollerebbe sotto le maledizioni dell’umanità prima di essere compiuto».
E chi meglio di lui, che aveva «visto» il tempo dei Demoni, avrebbe potuto lanciare una profezia simile, «vedere» con decenni (o un secolo) d’anticipo i «furfanti furbissimi, che hanno studiato appunto il lato generoso dell’anima umana, più che altro quella dei giovani, per saperla suonare come uno strumento musicale»?
C’è uno dei giudizi apparentemente più rozzi ma in realtà, come spiegherebbe René Girard, più acuti e profondi sul socialismo: «Il socialismo politico, la cui essenza, nonostante tutti gli scopi annunciati, consiste per ora soltanto nel desiderio di un saccheggio generale di tutti i proprietari da parte delle classi povere, e poi “sarà quel che sarà”».
Ci sono le analisi sociologiche che fanno fuori tutti i sociologismi d’accatto: «Così giungeremo a poco a poco alla conclusione che i delitti non esistono affatto, e di tutto “ha colpa l’ambiente”». E, d’altra parte, soltanto lui era penetrato negli abissi di ogni Delitto e castigo. Tutti gli altri, al massimo, hanno letto le cronache nere dei giornali.
C’è la consapevolezza che se tutto comincia dall’inizio, se l’uomo è prima di tutto un giovane, la chiave è nell’educazione, e allora sempre di più si vede «gioventù cattiva e indesiderabile, ma io sono sicuro che l’educazione troppo intenta a render tutto più facile porta la colpa se la gioventù è oggi così». È possibile che ancora, dopo quasi centocinquant’anni, non soltanto giornali e Tv, ma soprattutto, ed è questo il vero delitto, le scuole e le famiglie siano piene di quelli che preferiscono «lodare la gioventù nella sua totalità, per ogni cosa e in qualsiasi caso, e \ attaccare con volgarità tutti coloro che si permettono, all’occasione, di valutare criticamente anche la gioventù»?
Leggere il Diario di uno scrittore di Fëdor Dostoevskij, che dopo circa vent’anni, durante i quali era diventato introvabile, Bompiani ripubblica (pagg. 1402, euro 35, traduzione di Ettore Lo Gatto), è come immergersi in un mare senza fine dove a ogni pagina s’incontrano tesori che non ti aspetti, ma non si ha il tempo di ammirarne uno che già la corrente, impetuosa, ne presenta di nuovi. Perché forse nessun altro scrittore della modernità, come Dostoevskij, fu tutto e il contrario di tutto, assolutamente rivoluzionario e pervicacemente reazionario, futurista e arcaico, disperatamente a caccia di un Dio di cui non riusciva a sentire la voce e assurdamente certo che dietro il suo silenzio non si nascondesse il Nulla.
Quando comincia a scriverlo, nel 1873, Dostoevskij ha più di cinquant’anni. Ha appena pubblicato I demoni, e prima ancora Delitto e castigo e L’idiota. Nel 1849 era già stato arrestato e condannato a morte, portato davanti al plotone e graziato, con raffinata crudeltà, un minuto prima che i fucili sparassero, ed è chiaro che fu anche perché sentì l’orribile carezza della morte che poi diventò e scrisse ciò che poi fu e raccontò. Seguirono quattro anni nel penitenziario di Omsk, che non era naturalmente un gulag sovietico, anzi: «Quattro anni di galera furono una lunga scuola». Poi la liberazione. Il matrimonio. I grandi romanzi. Il lavoro da giornalista.
Sì, perché Dostoevskij fu anche giornalista, e che giornalista. Il Diario di uno scrittore, infatti, è la raccolta di articoli scritti mensilmente. A chi è abituato allo stile falsamente asciutto ed essenziale del giornalismo moderno, quello di Dostoevskij apparirà un po’ prolisso, e probabilmente farebbe fatica a trovare posto nelle gazzette moderne. Ma è lo stile di Dostoevskij, dove c’è un inizio, ma sembra che il filo del ragionamento si perda per chissà quali labirinti fino a quando, come per miracolo (ma non per caso), si riacchiappa il filo iniziale e ci si accorge che è stato dipanato con una lucidità e uno splendore sbalorditivi.
Dostoevskij scrive di politica e di fatti di cronaca, di religione e di letteratura. Pubblica, nel Diario di uno scrittore, anche alcuni dei suoi racconti più belli, come La mite. E, soprattutto, fa i conti, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, con la grande ossessione della sua vita, quella che gli spalancherà gli abissi di I fratelli Karamazov, il romanzo pubblicato un anno prima della sua scomparsa improvvisa, nel 1881: la morte di Dio. Perché: «Una volta ripudiato Cristo, l’intelletto umano può giungere a risultati stupefacenti».

Perché dopo più di un secolo, dopo un paio di massacri mondiali, dopo il nazismo e il comunismo, la morte e forse la resurrezione di Dio, Dostoevskij è l’unico che ha «visto»: «L’orrore mistico, la più grande forza che domini l’anima umana».

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