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E l’Italia «Rinascente» fece la spesa

Un saggio dedicato al primo «grande magazzino», fondato a Milano nel 1917 e diffusosi in tutto il Paese

The legacy of Italy, il volume redatto da Giuseppe Prezzolini per il pubblico statunitense, nel 1948, poi apparso anche in lingua italiana, con il titolo di L’Italia finisce. Ecco quel che resta, costituiva una vera e propria anti-storia d’Italia. Dopo la catastrofe militare e istituzionale che aveva posto termine al secondo conflitto mondiale, se proprio doveva parlarsi di patria italiana, sosteneva Prezzolini, questa doveva essere ricercata in fenomeni che esulavano dalla costruzione di una collettività nazionale e statale. L’Italia si riconosceva piuttosto nella religiosità francescana, nell’amore per il melodramma, nella cucina, divenuta «una filosofia di vita», nelle bellezze artistiche e naturali, nel mito del Paese dalle mille città, che tanto piacque ai viaggiatori europei del Grand Tour.
Quella di Prezzolini era un’intuizione destinata a un duraturo successo se, dalla fine degli anni ’90, una fortunata collana editoriale, diretta da Ernesto Galli della Loggia per Il Mulino, poneva a base dell’«identità italiana» non soltanto i grandi eventi politici, militari, culturali, ma piuttosto, anche se non esclusivamente, altri simboli di riconoscimento ben più presenti nell’immaginario collettivo. A partire da questi assunti, i personaggi, gli eventi, le istituzioni che tradizionalmente venivano considerati, nel bene e nel male, i fattori propulsivi della vita associata degli italiani trovavano sicuramente il loro posto nella collezione: Giordano Bruno e Giovanni Gentile, Cavour e Mussolini, un santo e un sindacalista del Novecento, una battaglia vittoriosa, la celebrazione delle festività nazionali, i monumenti civici. Ma su queste icone prevaleva lo spazio concesso ad altri simboli di identificazione. La pizza e gli spaghetti, Capri, il melodramma, il fotoromanzo, un affermato giornalista e un famoso attore del Novecento, alcuni celebri sportivi, il sistema autostradale che aveva ridotto il divario non solo geografico tra Settentrione e Mezzogiorno, qualche celebre monumento, Brighella, Pantalone, Arlecchino, gli Appennini e le Alpi, la «Mamma» e il mammismo.
L’iniziativa editoriale si completa ora con un volume dedicato al più antico luogo deputato allo shopping di massa: La Rinascente, di Elena Papadia (pagg. 165, euro 12). È un piccolo libro gradevole e molto informato che fornisce un’attenta analisi economica, sociologica della storia del più antico «grande magazzino» italiano, fondato a Milano nel 1917 e presto diffusosi capillarmente, con un fitta rete di filiali, in buona parte del nostro Paese. Dalle capitali industriali del Nord a Roma, a Taranto, a Trapani a Siracusa, La Rinascente standardizzava e uniformava il consumo dell’intera penisola, imponeva ad un Paese ancora prevalentemente agricolo il gusto cittadino del vestire e dell’abitare, in una versione decisamente a buon mercato, tendenzialmente interclassista.
Quella nazionalizzazione delle masse che per molti intellettuali e politici si sarebbe dovuta compiere sui campi di battaglia della Grande Guerra, si realizzava invece, senza spargimento di sangue, sudore e lagrime, con la scelta di un tessuto, di un arredo, di un accessorio che rendeva ogni italiano simile a tutti gli altri.

Questa almeno la morale del volumetto di Papadia, dalla quale ci permettiamo garbatamente di dissociarci, ricordando che in quello stesso 1917, sul Piave, in una disperata battaglia di resistenza che faceva seguito alla rotta di Caporetto, borghesi, contadini, operai in grigioverde appresero l’amore per una fino allora mal conosciuta patria.

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