I nostri inviati a Lhasa,
Luciano Gulli e Stenio Solinas
Quattro passi tra le nuvole, sul tetto del mondo. Ci sarebbe piaciuto chiudere così il nostro mese di missione in Cina. Ma non sembrava facile. Anche adesso, che all'altoparlante chiamano il volo 4112 per Lhasa... Siamo a cinquemila e passa metri di altitudine, sotto di noi brilla lo specchio luminoso di un grande lago, ci circondano montagne innevate che digradano a valle emanando colori violetti. È il Tibet geografico, e si capisce come e perché ci sia sempre stato un Tibet dell'anima, lì dove tutto è incontaminato e illuminato, distante e allo stesso tempo vicino, intimo.
Il Tibet politico è più sfuggente; qualcosa che periodicamente emerge per poi di nuovo scomparire. Ricordate? Le proteste di marzo dei monaci buddisti finite in un massacro; la chiusura delle frontiere; l'idea, poi tramontata, di boicottare le Olimpiadi; l'assicurazione del governo di Pechino che durante i Giochi la stampa accreditata sarebbe stata libera di andare dove voleva. Solo per il Tibet, veniva sottolineato, occorreva un'autorizzazione. Lo si faceva per la sicurezza degli stessi giornalisti, naturalmente...
Forse è anche per questo che in Tibet alla fine non è andato nessuno. Più passavano i giorni e più la sua immagine si scoloriva. Forse è anche per questo che in Tibet ci siamo andati solo noi, «giornalisti di paesaggio», più che turisti per caso o di passaggio, come nel balletto anglo-burocratico che ha accompagnato due settimane di trattative ci siamo definiti.
Così adesso siamo a Lhasa. Il colpo d'occhio, sotto l'azzurro sfacciato di questo cielo così vicino, è impressionante. Usciamo dal sacro tempio di Jokhang, dove una settantina di monaci seduti a gambe incrociate salmodiano in un basso continuo, rivolti all'immagine sacra del Budda Sakiamuni. Giriamo rigorosamente in senso orario lungo la piazza del Barkhor, gremita di campagnoli che pregano, e di cittadini che fanno affari nelle centinaia di negozietti che circondano il tempio e ci chiediamo quanto e come l'elemento religioso, nel momento in cui viene garantito, cessi di essere un fattore di rivendicazione nazionale. E quanto e come l'elemento numerico, nell'alterare gli equilibri etnici, possa provocare nel tempo la scomparsa di un'identità nazionale.
Perché è chiaro che il «fattore umano» cinese, come vedremo più avanti, è numericamente preponderante rispetto a quello tibetano. Ed è altrettanto chiaro che la Cina vede nel Tibet qualcosa che storicamente le appartiene e a cui mai rinuncerà. Sicché, tutti i discorsi sull'indipendenza, sul governo in esilio, sul ruolo carismatico del Dalai Lama, rischiano alla fine di far perdere di vista il vero problema: come far convivere al meglio due etnie diverse per lingua, religione, costumi, tradizioni. Piuttosto che intervistare i tibetani in esilio, si dovrebbe cercar di sentire quelli che qui ci vivono e con il modello cinese devono fare i conti. Per quanto la cosa non sia facile, non è impossibile.
ASPETTAVAMO I CINESI
«L'anno scorso abbiamo avuto
un sacco di gente. Quest'anno
c'erano le Olimpiadi, d'accordo;
ma un mortorio così non si era
mai visto. Vengono quelli delle
campagne, che si portano anche
l'acqua da casa. Ma di turisti veri,
che spendono...». Tashi, proprietario della locanda
dove ci fermiamo per un tè si
dondola sulla punta dei piedi, i
pollici infilati nella cintola. «Dopo
i fatti di marzo sapevo che sarebbe
andata così».
Non è l'unico, Tashi, a piangere miseria. Come lui la pensano Dawa, Norbu, Kelsang, proprietari di un paio di botteghe e di un ristorantino lungo la via. «Doveva essere l'anno dei cinesi, ora che la Qinghai- Tibet, la ferrovia che ha abbattuto la nostra frontiera, marcia a pieno regime. Invece - si lamenta Kelsang - si son visti poco anche loro». «Loro». Ne parlano come fossero stranieri; come se dicessero: gli italiani, i tedeschi, gli americani. Glielo facciamo osservare. Ridono.
Qualche «forestiero» con gli occhi a mandorla però si vede. Xu Yun Hai, per esempio. È seduto al primo piano della locanda di Tashi, insieme con la sua fidanzata e a un gruppo di amici. Sono venuti da Shanghai (53 ore di treno) dove Xu, 29 anni, originario della provincia di Jiang Su, lavora in banca. Sono qui da sei giorni. Domani ripartono. Vacanze in Tibet, dopo tutto quel che è successo? «Perché no. Il Tibet è in Cina. E i tibetani sono sempre stati gentili con noi», risponde Xu. Però vi considerano stranieri... «Lo so. Alcuni pensano che il Tibet debba essere indipendente. Io credo che abbiano ragione. Forse è solo una questione di tempo. Così come a noi sono state restituite Hong Kong e Macao, e come un giorno riavremo Taiwan, così i tibetani potrebbero...».
«Ma no, ma no, che stai dicendo », si intromette Jigmila, cercando una versione politicamente meno scorretta. Ha 29 anni, Jigmila. Con lui, funzionario del ministero degli Esteri, abbiamo stretto un accordo. Niente interviste, percorsi turistici predefiniti, incontri preordinati. Non è solo il nostro scout. È anche la nostra guida, in tutti i sensi. Se uno accenna vagamente ai monaci abbattuti in piazza, per esempio, lui trasale. «Morti e feriti tra i monaci? Dite che c'erano addirittura le foto sui giornali italiani? A me non risulta. Qui nessuno ha saputo niente».
Anche a Jigmila, tuttavia, riesce difficile negare che tibetani e cinesi sono due mondi separati, dove il termine «integrazione» è sostanzialmente sconosciuto. Per esempio: Xu e i suoi amici sono qui da sei giorni, ma non hanno mai scambiato una parola con un loro coetaneo. «Ha ragione - conferma sorridendo il bancario di Shanghai -. Ora che ci penso, è proprio vero. È che di giorno eravamo in giro per le montagne. E la sera stavamo incollati davanti alla Tv a guardare le Olimpiadi...».
Quando raccontiamo della nostra guida a Lhamo, 18 anni, studentessa all'Istituto superiore per il Turismo, lei ride. «Li conosco. Non cambiano mai...». Nei tre mesi estivi Lhamo fa la cameriera in un albergo del centro, per non pesare troppo sulla famiglia. «Mia madre vendeva vestiti al mercato. Poi, con un pretesto, le hanno tolto la licenza». Lhamo racconta della normalizzazione seguita ai fatti di primavera, delle parole d'ordine consegnate ai cittadini dalle autorità: rimuovere, far finta che non sia accaduto nulla. «Chi parla di quella storia, chi commenta viene punito. Nei giorni degli incidenti i soldati ci hanno costretti a stare chiusi in albergo una settimana. Non volevano troppi occhi in giro».
MEGLIO PREVENIRE CHE
REPRIMERE
Zhang Lizong,
trent'anni scarsi, vice
responsabile dell'ufficio esteri della
Regione autonoma
del Tibet, ha fatto
preparare per noi una cena tipica
dove lo yak, la mucca lanosa e
dalle grandi corna che è il simbolo
nazionale, è regina. È qui da
tre anni, Zhang, sufficienti per
sapere che non può limitarsi a
tracciare un quadro idilliaco della
convivenza tibetano-cinese.
«L'integrazione nel complesso è buona, nonostante qualche tensione. Ci sono stati molti matrimoni misti. Sa com'è: fin da ragazzi, tibetani e cinesi residenti, frequentano le stesse scuole... Rispetto a vent'anni fa, è cambiato anche il nostro modo di vedere il Tibet. Dico di noi funzionari, quadri dell'amministrazione, imprenditori, insegnanti: non è più una tappa o un punto di partenza nella carriera, ma un luogo dove fermarsi. E questo facilita i rapporti».
Resta il fatto che la città è presidiata militarmente. In specie nella parte vecchia. C'è una polizia addetta al centro storico, la Barkhor Police, uniforme blu scuro, cappellino con visiera, stivali. C'è la Psb, ovvero la Pubblica sicurezza, che veste anche in abiti civili, ed è riconoscibile a vista come lo era la squadra «politica » italiana delle grandi città negli anni Settanta. C'è la Ssb, ovvero la Sicurezza di Stato, e naturalmente c'è la Polizia militare, la Pap, acronimo della Polizia armata del popolo. Girano con il mitra, ma lo imbracciano, letteralmente, usando i guanti bianchi... Quando facciamo notare a Zhang questo spiegamento di forze, lui fa un mesto sorriso, quasi a scusarsi: «È meglio prevenire che reprimere: si dice così anche nel vostro Paese, credo».
Il giorno prima, in un bar del Barkhor, il "Maky Ame", ovvero la Ragazza Vergine, davanti a un bicchiere di chang, una specie di birra fermentata che è tutta da dimenticare, il proprietario ci aveva detto che al governo importava poco ciò che facevano gli stranieri. «Naturalmente gli interessa sapere con chi parlate, dove i giornalisti stranieri pescano le loro informazioni. E naturalmente c'è una sorta di sistema informativo, non ufficiale, che servirebbe a sorvegliarci gli uni con gli altri. Ma insomma non è più come una volta...».
LA FERROVIA DELLA NUOVA FRONTIERA
Ci sono due Lhasa: quella occidentale
e quella orientale. A unirle,
un boulevard a sei corsie, la
Bejing Lu, fiancheggiato da lampioni
dipinti di bianco e di giallo,
in stile tardo rococò. La prima,
potete saltarla a piè pari. È una
lunga teoria di concessionarie,
di fabbrichette, di uffici governativi,
di caserme e anonimi supermarket
che hanno inghiottito, vetrioleggiandolo,
il volto della mitica
Shangri-La. A fianco di piccoli,
deliziosi tempietti trovi bar in
cui il sabato sera torme di sciamannati
si danno al karaoke, e
trattorie in cui se chiedi la tsampa,
il piatto tradizionale tibetano
a base di farina d'orzo tostato, ti
guardano strano.
Ma se cercate un luogo dove la modernità si conclama, celebrando il mito del Progresso, dovete andare alla stazione ferroviaria. È lì che allunga il suo avveniristico muso il Qinghai- Tibet, orgoglio e scommessa di Pechino. Dove la scommessa sta nel trasportare masse popolari imbambolate ancora dietro alle Ruote delle Preghiere, e proiettarle verso quello stakanovismo laicista che ha fatto grande la Cina dei 51 ori olimpici. Il nuovissimo, supertecnologico treno delle nuvole (o della Nuova Frontiera, come molti romanticamente lo chiamano richiamandosi al vecchio sogno americano) funzionerà perfettamente, pensano i leader del Partito, per cambiare davvero, una volta per tutte, il panorama.
Il treno, in sé, è straordinario. Finestrini in cinemascope, maschere per l'ossigeno, un tracciato che negli ultimi 1000 chilometri sale fino ai 4mila metri, una trentina di sottopassaggi per consentire agli yak e alle capre di seguire le loro strade nel tempo della transumanza. Da Lhasa al lago Namtso, 4.718 metri sul mare, il lago salato più alto del mondo, ci sono più di 200 chilometri. Per un buon tratto, la linea ferroviaria segue quella stradale, scavalcando lo spumeggiante fiume Lhasa. Chilometri e chilometri di binari sospesi su forcelle in cemento armato; su terreni perennemente ghiacciati, in un panorama che talvolta è di struggente bellezza.
All'intorno, per restare al tema della Nuova Frontiera, ci sono le facce dei Sioux e dei Cheyenne che portano al pascolo i loro yak e ancora trasalgono, nonostante il treno sia in servizio da due anni, quando il missile sfreccia nella valle. Intorno al lago, fuochi di bivacchi, piccole piramidi di cacche vaccine stese ad asciugare (verranno buone d'inverno, nelle stufe), cavalli impennacchiati che aspettano di ripetere all'infinito la promenade lungo le sue sponde, vecchi e sgangherati bigliardi per intrattenere i viandanti e bandiere al vento. Il treno che sfreccia laggiù, nella valle, è costato (e ne costerà in termini di manutenzione) così tanti milioni di euro che pensare a un ritorno economico sarebbe stato da folli.
Il suo significato più profondo è politico, naturalmente. Facilitare i trasporti significa rendere ancora più permeabile un territorio che proprio per la sua sostanziale inaccessibilità era rimasto isolato, perdutamente ancorato alle sue tradizioni. Il Qinghai-Tibet serve a veicolare - promettendo facilitazioni fiscali, scuole per i figli, posti di lavoro - masse di disoccupati di etnia Han facendo saltare soprattutto nelle città gli equilibri etnici e demografici, confinando i tibetani al ruolo che gli spetta: quello di simpatici, colorati, pittoreschi, eccentrici residui del passato. Come i Sioux e i Cheyenne, appunto.
La Tv sta già facendo il resto, con la sua recita quotidiana, appassionata, martellante, di salmodie dirette a un Dio che era sconosciuto, sull'Hymalaia e dintorni, fino a qualche decennio fa: il dio del Consumo. «Non tutto però viene per nuocere - ci ricorda Jigmila, la guida -. Per gli studenti che andavano all'università di Pechino, la differenza è fra due giorni di treno o dieci di corriera. Per i commercianti e gli imprenditori è la differenza che passa tra gli 800 yuan del treno e i 2.400 di un biglietto aereo...».
IN AUTOSTRADA PER PREGARE MEGLIO
Nel viaggio verso il lago Namtso,
una mandria di yak blocca la
strada. Chi la governa è un nomade
golok del nord est. Non ha fretta.
Noi neppure. Sui nomadi circola
una storiella governativa.
«Ti piace il Partito comunista cinese?
», viene chiesto a uno di loro.
«Sì. Ha costruito strade così
buone che ora posso andare a
Lhasa tranquillamente in automobile
a visitare i templi dei Lama...
».
Per quanto la fonte sia interessata,
nella storiella c'è del vero.
E forse il problema del Tibet è quello di essere un territorio dove l'immagine della propaganda ha finito col sostituire quella della realtà. Ciò che noi occidentali conosciamo è il messaggio politico del Dalai Lama, le sue frequentazioni, i riconoscimenti che ne circondano la figura carismatica. Ma poco o niente sappiamo della vita quotidiana di un Paese in gran parte desertico che non raggiunge i tre milioni di abitanti, ma è un ottavo della Cina e otto volte l'Italia. Il tenore di vita fuori delle città è spesso elementare, le sacche di povertà tremende. Come al solito, la Cina si rivela incapace nel gioco della «seduzione pubblica», e il povero Zhang Lizong ne è consapevole. «Non siamo simpatici - ammette -. E la colpa in gran parte è nostra».
Eppure, dimenticati gli eccessi sanguinosi degli anni Cinquanta, e poi quelli della Rivoluzione culturale, da un ventennio a questa parte il governo ha fatto molto per il popolo tibetano: scuole, strade, ospedali, infrastrutture, aiuti economici, prospettive di lavoro. Sicuramente molto di più di quanto nel quarantennio novecentesco dell'indipendenza fecero per i propri sudditi la classe religiosa e la cosiddetta nobiltà di corte. Ciò che colpisce, andando in giro, è questo intreccio di povertà, meditazione, pellegrinaggio, semplicità. È difficile non coglierne gli elementi pittoreschi, se non grotteschi, nell'incedere, nel vestiario, negli attributi della fede.
Il piccolo cilindro girevole della Ruota della Preghiera, e il mantra recitato che ne accompagna il movimento; i seguaci dell'intero albero religioso buddista che si prostrano fino a terra per poi strisciare; i berretti neri, rossi e gialli delle varie confraternite... È evidente come la religione sia anche un modo, se non di guadagnarsi la vita, di adoperarsi a viverla, laddove la difficoltà di un lavoro o di una famiglia, la povertà, si ergono come barriere insormontabili. Il buddismo compassionevole, che crede nella reincarnazione, impedisce di maledire il proprio stato, così come il cercare di cambiarlo.
Nel monastero di Tashi Dor, scavato nella montagna ai bordi del lago Namtso, due anziane ex monache ci offrono un bicchiere di tè-yak, così chiamato perché è il burro dell'animale a dargli il colore e, purtroppo, il sapore. Vivono in una grotta di pochi metri quadri; a occhio non hanno nulla tranne il niente che gli serve. Hanno fatto della loro «inutilità» una ragione di vita, e sono contente così.
Nel salutarci, la più giovane ci mostra una radiolina anni Cinquanta, perfettamente funzionante, per farci capire che non sono poi così fuori dal mondo. Sa come sono andate le Olimpiadi?, le facciamo chiedere. «Abbiamo vinto », risponde lieta.
Luciano Gulli
Stenio Solinas