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Mediobanca prova l'arrocco, ma cresce il rischio autogol

Insieme al cda c'è in gioco la qualità operativa. La partita Nagel-Milleri e quella proposta a Caltagirone su Generali

Mediobanca prova l'arrocco, ma cresce il rischio autogol

Ieri Mediobanca ha pubblicato l'avviso di convocazione per l'assemblea che si svolgerà il prossimo 28 ottobre. Come da tradizione, cinque i punti all'ordine del giorno, tra cui l'approvazione del bilancio al 30 giugno, ma soprattutto la nomina del nuovo consiglio d'amministrazione per il triennio 2024-2026. Non sarà l'assemblea di routine cui abbiamo assistito per decenni, perché se entro il 28 settembre non verrà raggiunto un accordo sul nuovo presidente, tra i manager dell'istituto e il principale azionista (la Delfin degli eredi Del Vecchio), l'esito sarà una forte discontinuità nella storia della merchant bank fondata da Enrico Cuccia. La conclusione, effetto della contrapposizione fra la lista del cda e quella di minoranza presentata da Delfin, potrebbe infatti portare a un significativo impoverimento operativo dell'istituto. Un rischio non banale, favorito dalle norme che oggi regolano la governance di Piazzetta Cuccia, da sempre fortemente piegate agli scopi del management: non a caso piuttosto che di lista del cda, per Mediobanca si parla di lista dei manager.

Nei decenni la formula ha riscosso non pochi successi, stante un azionariato funzionale alle attività dell'istituto e soprattutto l'elevata professionalità della sua prima linea.

Per esempio, dell'attuale amministratore delegato Alberto Nagel si potranno discutere le qualità empatiche, ma tutti ne riconoscono la grande abilità di banchiere. Non a caso anche quest'anno firma un bilancio di grande soddisfazione per gli azionisti. Ma i tempi cambiano, come cambiano le spinte del mercato; e poiché non è un mistero che la banca milanese resta la porta più diretta per arrivare al controllo delle Generali, non sorprende il desiderio crescente dei principali azionisti di incidere sulla politica dell'istituto attraverso un'adeguata presenza nel cda. Cosa praticamente impossibile con l'attuale sistema di governance, interamente nelle mani del management.

Questo il punto. Di qui il confronto serrato tra i legali della banca e quelli di Delfin che per tutta l'estate hanno lavorato attorno a una ipotesi di accordo, resa però impossibile per le condizioni oggettivamente punitive proposte a Delfin. Per questo, onde allontanare dall'assemblea lo spettro di uno scontro tra liste contrapposte che minerebbe la capacità operativa dei manager chiamati a dover rendere conto a un cda non più monolitico, l'amministratore delegato di Delfin, Francesco Milleri, ha proposto di condividere quantomeno il nome del nuovo presidente da insediare al posto di Renato Pagliaro, manager di lungo corso in Mediobanca che dopo tre mandati consecutivi ha per di più perduto il requisito dell'indipendenza. I nomi fatti circolare per la successione sono peraltro figure di alto profilo (Vittorio Grilli, Flavio Valeri, Fabrizio Palenzona, Lorenzo Bini Smaghi) che aggiungerebbero smalto all'istituto.

Nagel, che ufficialmente si trincera dietro un obbligo statutario che delega al nuovo cda la nomina del presidente inibendo perciò un accordo preventivo con gli azionisti, starebbe in realtà riflettendo sull'opportunità di sacrificare Pagliaro. Il perché è presto detto. La bandierina piantata sulla torre alta delle Generali nella primavera dello scorso anno sembra sbiadirsi mese dopo mese (l'amministratore delegato Philippe Donnet, conscio del fatto che difficilmente potrà contare su un nuovo mandato, si starebbe muovendo con inaspettata autonomia), al punto che qualche tempo fa, probabilmente anche nell'ansia di stemperare i rapporti con l'avversario di allora Francesco Gaetano Caltagirone, avrebbe proposto a quest'ultimo la sostituzione di Donnet con Giulio Terzariol, cfo e head-finance del gruppo Allianz. Non conosciamo la risposta di Caltagirone, ma quella vittoria tanto sbandierata lo scorso anno come un successo del mercato, insieme all'accerchiamento oggettivo che Nagel sta subendo in Piazzetta Cuccia (qualora Delfin dovesse presentare la sua lista, Caltagirone la voterebbe sicuramente) somiglia sempre più a una vittoria di Pirro. E poichè l'uomo, oltre che eccellente banchiere, è anche piuttosto avveduto, non sorprenderebbe un armistizio siglato all'ultimo proprio nel nome di un presidente condiviso.

Di fronte a ciò che accade intorno a Mediobanca anche a causa di una legislazione pensata per esigenze di altri tempi e di una Consob troppo pigra e incline allo statu quo più che all'innovazione, si resta sorpresi nel leggere come uno stimato esperto della materia qual è Antonio Misiani, responsabile economico del Pd, giudica le novità introdotte nel ddl Capitali a proposito di lista del cda. Dice Misiani: «Così si rischia di rendere imgovernabili tutta una serie di cda». Ma è proprio il contrario, è in virtù delle attuali regole che si rischiano gli scontri frontali, come insegnano i casi Mediobanca e Generali, laddove il consiglio di amministrazione dovrebbe rappresentare la sintesi equilibrata tra la volontà degli azionisti e le pulsioni operative dei manager. E' pur vero che far presentare le candidature al cda uscente è una prassi diffusa in molte legislazioni, che però poi prevedono il voto su ogni singolo candidato. Perchè mai dovrei votare in blocco una lista di consiglieri, alcuni dei quali non stimo, pur di avere Nagel come amministratore delegato? E' questa l'anomalia da correggere.

Inoltre, il fatto che la lista del cda deve essere approvata dall'80% dei consiglieri uscenti, contrariamente alle critiche (peraltro limitate alla percentuale numerica, ma è fatto salvo il concetto) è garanzia del fatto che il nuovo elenco non sia mera espressione di una maggioranza risicata stretta attorno al nucleo manageriale.

Invocare l'autonomia e l'indipendenza del manager si può, anzi si deve; a patto che venga riservata pari dignità alla volontà degli azionisti.

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