Cultura e Spettacoli

Egoista, consumista e ora terrorista Il vento dell'odio soffia sul Nordest

Al Triveneto è spesso rinfacciato di essere la patria dei peggiori mali del Paese L’ultima (strampalata) accusa: la paternità dei crimini politici, da Porzûs ai naziskin

Una-Bomber; Made in Nordest. Pietro Maso, Ludwig, Gianfranco Stevanin; Made in Nordest. Cementificazione senza fine, consumismo selvaggio, becero razzismo esponenziale: tutto e sempre, Made in Nord Est. All’appello mancava solo l’eversione terroristica, il germoglio del quarto Reich, la ricostituzione del partito nazional-socialista-stalinista e aggiungete un po’ voi quello che vi viene. Tranquilli, siete accontentati.
Sarà che il terrore genera panico, e il panico, a sua volta, crea confusione. Sarà che il titolo, di per sé, Terrore a Nordest, suggerisce più un romanzo imperniato sullo scontro all’ultimo sangue tra predatori di vongole veneziani contro operai del mare polesani, piuttosto che un innovativo saggio di geopolitica; sta di fatto che la lettura del libro scritto da Giovanni Fasanella e Monica Zornetta, mi ha convinto davvero poco. Il volume, sin dai suoi primi rumorosi, apodittici vagiti, incappa in un errore vistoso che è, in primis, geografico ancor prima che politico.
Il Nordest, indicato come «il laboratorio che ha prodotto ed esportato nel resto del Paese il fenomeno della violenza politica e del terrorismo», viene qui tranquillamente identificato come quella zona che si estende da «Trieste-Bolzano, che poi si allarga, all’interno, verso Trento, Venezia, Treviso, Padova e Verona».
Ebbene - sia detto una volta per tutte - questo Nordest non c’è, non esiste. Non esiste un abitante di Padova o Treviso che si senta in qualche modo legato particolarmente a un abitante di Trieste; abbiamo radici, modelli di comportamento, dialetti, giornali, tradizioni completamente differenti. Tanto per capirci: quando vado a trovare mio fratello che insegna all’Università di Trento, provo la stessa sensazione di «familiare estraneità» che sento quando percorro la Spacca Napoli, tenendo a mente la mappa emozionale tracciatami dal mio amico e grande attore Mariano Rigillo.
Napoli e Trento per un padovano o un vicentino sono ugualmente, infinitamente distanti.
Se poi quel veronese, quel trentino o quel veneziano fanno parte di un gruppo eversivo - basta guardare quello che gira attraverso le volute della Rete - e vogliono scambiarsi parole, pensieri, (si fa per dire...), oppure concertare strategie o azioni, riescono a farlo da Nord, a Centro, a Sud, senza alcuna limitazione, né tanto meno appartenenza geografica.
L’errore sopra citato diventa però difficilmente perdonabile più avanti; e cioè, quando il tragico omicidio di Nicola Tommasoli, pestato a sangue da cinque giovani, vigliacchi assassini, viene affrontato con il passo di un inaccettabile teorema.
Un delitto che, secondo gli autori, sarebbe da addebitare a «l’odio xenofobo di matrice neofascista e neonazista», che a Verona «ha finito per incrociarsi e fondersi con le fobie etniche di matrice leghista, creando quello specifico humus politico-ideologico e culturale di cui la pianta si è così voracemente nutrita». Segue poi un ritratto dei «coltivatori diretti» di questa pianta carnivora e onnivora che dalla città di Giulietta e Romeo si espande sino a quella di Saba: il sindaco Flavio Tosi, gli esponenti di Forza Nuova, un insospettabile ideologo dell’intera combriccola, (nientepopodimeno che Mario Borghezio), e la sua cara amica Alessandra Mussolini, nipote del Duce. Già che ci siamo ammettiamo pure, anche se implicitamente, che la coppia di omosessuali minacciata e molestata a Roma fosse in verità un’ulteriore, premeditata tappa del virus dilagante, grazie a un gemellaggio di batteri nostalgici tra Tosi e Alemanno.
Facciamo i seri: dire che il branco che ha massacrato Tommasoli sia stato in qualche modo influenzato all’atto da radici ideologiche è come dire che il Mostro di Firenze ha ammazzato le sue vittime perché in costante ascolto di Marilyn Manson. La verità è un’altra: i naziskin, i razzisti, coloro che inneggiano Hitler o tengono il poster di Curcio, da queste parti, sono e continueranno a essere presi - si perdoni il francesismo - a calci nel culo, ogni giorno.
I calci provengono dai territori vicentini dove la maggioranza degli immigrati è perfettamente integrata; i calci provengono dall’hinterland trevigiano dove, alla «sparate» leghiste di inequivocabile cattivo gusto, corrisponde un tasso d’occupazione e di permanenza extracomunitaria tra i più alti in Italia; i calci provengono dalle gambe giovani e sane di alcune organizzazioni, per nulla clandestine, di volontariato, politicamente trasversali, che impiegano il tempo a risolvere i problemi di clandestini e non.
Se Flavio Tosi ha veramente dichiarato o in qualche modo condiviso parole come: «Siamo tutti figli del Führer...», farebbe meglio a dimettersi immediatamente perché altrimenti, alle prossime elezioni, (quelle appena trascorse le ha vinte soprattutto per il disastro compiuto dal centrosinistra nella sua fallimentare esperienza governativa), verrà detronizzato da una schiacciante maggioranza che gli risponderà: «Noi invece siamo tutti figli di Elie Wiesel...».
L’humus culturale, ideologico, politico non sono Forza Nuova, i centri sociali, le nuove Brigate rosse. Non sono Borghezio o Caruso. Non sono le camice verdi o i fazzoletti rossi; le nostre radici non sono folclore. Non sono spranghe, coltelli, bombe; non sono incubi. Noi non siamo un ibrido punto cardinale; noi siamo parte integrante della bussola.
Le nostre radici si chiamano Tiziano e Filippo de Pisis. Carlo Goldoni e Andrea Palladio. Giuseppe Berto e Goffredo Parise. Diego Valeri e Gian Antonio Cibotto. L’elenco dei padri potrebbe continuare.

Ma assai lungo sarebbe anche quello dei figli.

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