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Eppure siamo tutti diventati cinesi

Siamo è pur vero distratti, ma la sensazione che si sia andati un po' troppo all'incontrario la cominciamo ad avere in molti. Perché non erano loro, i cinesi che dovevano diventare come noi? E invece siamo noi a ritrovarci ora cinesi, e nel ridicolo. Cosa abbiamo letto infatti per anni sui giornali di Londra e di New York? Che il patologico livello di sofferenze delle banche cinesi, i pesanti interventi di quello stato comunista in borsa, il cambio svalutato non sarebbero durati. Alla lunga, e noiosi ce lo ripetevano a pappagallo schiere di economisti nostrani, il mercato li avrebbe riformati. Persino il dispotismo comunista non avrebbe resistito: la globalizzazione lo avrebbe travolto. E invece che cosa ti è successo? Gordon Brown, nella patria di Adamo Smith, con furia gioiosa molla la sterlina alla deriva di una svalutazione, che più che cinese potrebbe dirsi italiana. Il tutto dopo aver molto nazionalizzato le banche del Regno. Rincorso peraltro dai cugini di là dell'Atlantico, mostratisi capaci di un livello di imbrogli bancari rispetto al quale i corrotti della Cina si sono rivelati dei dilettanti. Insomma non c'è stata predica più ipocrita di quella che gli anglofoni hanno dedicato per anni agli orientali. Del resto, a sentirsi descrivere un sistema nel quale il denaro abbia costo zero, la banca centrale sia lender of first and only resort mentre le banche smettono di prestarsi denaro, e i disavanzi pubblici siano soccorsi stampando moneta, ma chi avrebbe avuto ieri dubbi? Quale mai miglior descrizione di un sistema bancario dispotico. Solo Zinoviev, ciccio bolscevico maldestro e ricciuto, andò in effetti oltre, quando propose l'abolizione della moneta. Per il resto la descrizione si adatta alla maniera in cui il sistema bancario non funzionava, o per meglio dire funzionava secondo puri criteri d'arbitrio, in una qualunque democrazia socialista. E però è quanto la Federal reserve si è compiaciuta di usare come soluzione alla crisi. Approvata dal presidente Obama, impaurito, perciò più che mai in posa da cantante confidenziale. Insomma qualcosa di non poco conto è andato all'incontrario. E così si spiega pure l'articolo surreale sull'Herald Tribune di qualche giorno fa. In esso Thomas Friedman, premio Pulitzer, si ritrova a Hong Kong, in parte rovesciata, coi cinesi che gli chiedono, rudi, quanto è corrotta l'America, o gli ricordano quant'era brava a prescrivere agli altri invece il mercato. «È deprimente perché la Cina, per molti versi, ormai si sente più stabile dell'America oggi, e con una strategia più chiara... », così Friedman liquida infine la questione. Ma noi europei non possiamo cavarcela restando così nel vago. Difficile uscirne onestamente senza dire che è fallita la pratica anglofona di un mercato amministrato dalla venalità. Anche perché inglesi e americani hanno superato il limite: ci hanno dimostrato di non avere quel senso di responsabilità che invece pretendevano di insegnare al mondo. Eccoli ridotti a invidiare la «strategia più chiara» cinese. Sarebbe prudente che si iniziasse a interrogarci in Europa se davvero sia il caso di seguitare a imitarli, facendo finta di niente, o invidiandoli perché coi soldi delle tasse sostengono i corsi di borsa. O se non sia il caso di dare invece forma a un mercato diverso, solidale, con meno speculazione prima e meno stato ed espedienti bolscevichi poi. Peraltro il nesso tra stato e mercato era di quelli meno capiti dalle nostre sinistre pure quando potevano dirsi tali. Figurarsi ora.

Ma certo è un peccato che il loro Obamismo di nuovo li accechi.

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