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"Ero amato dalle massaie e sono finito in ammollo"

«Facevo il muratore e sognavo una chitarra. Dopo 15 anni di Carosello ho detto basta. I miei amici? Veronesi, Pupi Avati e Gualtiero Marchesi»

"Ero amato dalle massaie e sono finito in ammollo"

«Auguri Maestro!». Lui sorride con la chitarra in mano seduto su una poltrona del salotto nella sua abitazione, a due passi da Casa Verdi a Milano. Giacca e cravatta, gli occhiali di sempre. Mette le dita sullo strumento e accenna una melodia: quante volte l'ha fatto in una vita intera, una vita dedicata alla musica. Ancora lo fa, per una jam session ma stavolta di parole. L'occasione sono i traguardi record che ha raggiunto, eppure continua a considerarsi una persona «normale», insiste. «Ho compiuto settant'anni di jazz», attacca con un filo di voce Franco Cerri, simbolo della chitarra jazz italiana nel mondo. Che di anni ne ha compiuti 92 nel gennaio scorso. «Se la mia arte è un elisir di lunga vita? Speriamo...» sospira. Accanto a lui, durante l'intervista, come un angelo custode, il figlio Nicolas, sua memoria storica.

Maestro Cerri, lei ha una vita piena di successi, da dove vuole cominciare? Forse da una foto istantanea...

«Amo la mia chitarra, dall'età di 19 anni ho sempre fatto questo, il chitarrista; poi ricorderete, sono stato l'uomo in ammollo della pubblicità del Bio Presto, con molta popolarità e qualche fastidio: nel 1986 con il pianista Enrico Intra e con i critici Luca Cerchiari e Franco Fayenz abbiamo fondato la scuola milanese di jazz, i Civici corsi di jazz. Sono stati tanti i momenti fondamentali della mia carriera. Ma il mio atteggiamento non è mai cambiato: non ho mai voluto vantarmi con gli altri, farmi vedere, dimostrare».

A scorrere la sua biografia si legge una vita straordinaria con l'incontro con altri uomini straordinari, non solo colleghi.

«Tra gli amici che mi seguivano, ricordo l'oncologo Umberto Veronesi, l'attore Walter Chiari, il giornalista-divulgatore scientifico Piero Angela, tra l'altro bravissimo pianista. I momenti in tv con Paola Pitagora, poi Lea Pericoli. Senza contare l'ambiente sportivo. L'amicizia con l'atleta Livio Berruti, i contatti con Gianni Rivera e Mario Corso che vedo ancora adesso. E ancora, Giacinto Facchetti, insomma il Milan e l'Inter di quegli anni. Infine Gualtiero Marchesi».

Che ricordo ha del grande chef Marchesi, scomparso recentemente...

«Eravamo amici, insieme abbiamo condiviso un bella esperienza. Un premio dall'associazione Centro Studi Grande Milano che ci ha conferito Le guglie d'oro, una specie di Ambrogino d'oro privato. Ci eravamo persi di vista ma quella è stata l'occasione per riallacciare i rapporti. Un paio di anni fa siamo andati a mangiare il suo risotto al Marchesino, accanto alla Scala».

Ma non manca all'appello il regista Pupi Avati?

«Beh certo, Pupi. Come ho raccontato nel libro Sarò Franco, che ho firmato con lo scrittore Pierluigi Sassetti, con Pupi ci siamo conosciuti circa sessanta anni fa. E ci siamo visti tante volte, c'è grande affetto. Poi ci sono tanti che non ho citato, legati alla mia vita di jazz, una vita davvero affollata di persone interessanti».

Chissà con quanti big come lei ha suonato, fuori qualche nome

«I chitarristi Pat Martino, Django Reinhardt e Jim Hall, il trombettista Chet Baker, i sassofonisti Gerry Mulligan e Lee Konitz e il violinista Stephane Grappelli. Ho anche collaborato con Joao Gilberto. Mi viene in mente Mina alla trasmissione tv Senza Rete il magnifico brano eseguito insieme, Corcovado. Penso a Carosone e a Peter Van Wood. Poi il Quartetto con Nicola Arigliano. L'elenco sarebbe ancora lungo...».

Lei sembra un'enciclopedia vivente, chi tra loro è stato determinante per la sua carriera?

«Sicuramente Gorni Kramer, che per notorietà poteva essere considerato il Vasco Rossi dell'epoca. Con lui ho avuto la prima vera possibilità. Mi ha sentito suonare una volta, ma ci siamo persi di vista. Poi un incontro casuale in Galleria del Corso a Milano. Lui mi vide e mi disse sei in gamba, hai la paletta, domani vieni che ci sono le prove col Quartetto Cetra e Natalino Otto, ti aspetto. I miei non ci credevano all'incontro e così li ho fatti venire con me, per dimostrarglielo».

Erano gli anni Quaranta, le cose nascevano così: altro che scuole, corsi, curriculum e audizioni varie; c'erano la «scuola della strada», il lavoro, la vita da affrontare subito...

«Eh sì, nel mio caso ho scoperto la chitarra perché la suonava un vicino di casa, uno che stava al piano sopra di noi. Con i genitori abitavo nel quartiere milanese dell'Isola, in una casa di ringhiera in via Lario. Eravamo in cinque, di soldi ce ne erano pochi. Mio padre, invalido di guerra, faceva l'assicuratore, mia madre era casalinga. Nessun musicista in famiglia. Sono andato a lavorare presto. A 14 anni facevo il muratore, ero magrolino e non ce la facevo fisicamente a tirare su in secchi di malta. Poi sono riuscito a farmi assumere come ascensorista alla Montecatini, infine come fattorino di fiducia. Lo stipendio che prendevo lo consegnavo tutto in famiglia».

Ma la chitarra alla fine è arrivata, e quindi pure le prime lezioni, in casa sua si saranno resi conto della sua passione febbrile, o no?

«Mio padre un giorno è arrivato con qualcosa in mano e mi ha detto toh Franco, ecco la chitarra che tanto volevi, te l'ho presa perché so che ti piace tanto la musica ma per il resto arrangiati non posso pagarti nessun corso. E così mi sono arrangiato».

Ma è vero che ha imparato da solo, è stato un autodidatta?

«All'inizio si ricordano delle cose, che poi diventano altre cose. Ho imparato la musica al contrario, prima memorizzando i pezzi che mi piacevano, poi in un secondo tempo, quando è diventato necessario e ho imparato un po' a leggere le note, li ho confrontati con gli spartiti, facendo i miei ragionamenti e le mie improvvisazioni. Il solfeggio non mi piaceva. Per me fondamentale è stato l'ascolto, ascoltare la musica e da lì prendere quello che c'è da prendere per renderlo proprio».

Chissà che fatica cominciare, soprattutto da giovane durante la guerra: c'era già l'occupazione?

«In quel periodo uscire di casa poteva essere pericoloso. C'erano i soldati tedeschi in giro per la città e la sera quando tornavo a casa passavo davanti alle caserme avevo paura. Ho suonato in diversi posti, anche se il jazz non era visto di buon occhio. Andavamo pure a Radio Tevere che faceva finta di essere a Roma ma in realtà trasmetteva da Milano, la sede si trovava dalle parti di via XX Settembre; un'emittente al servizio della propaganda repubblichina. Ho cominciato a far concerti per davvero dopo la guerra, è diventato il mio lavoro».

Altra vita, altro «mestiere», oltre al jazz: la pubblicità, quando faceva l'«uomo in ammollo», la reclame fine anni Sessanta in cui lei sembrava essere in una vasca e consigliava Bio Presto, chissà che umidità

«La cosa che ora mi viene in mente è che prendevo il tram o la metro e la gente mi additava dicendo guarda c'è l'uomo in ammollo". Per questo motivo poi prendevo i taxi. Insomma quella réclame mi ha fatto diventare popolare nelle case quasi più del jazz. La cosa che a volte mi faceva impazzire accadeva durante i concerti. Quando venivo presentato prima del concerto con un ecco a voi Franco Cerri... capitava che dal pubblico arrivasse fischiettata la musichetta della pubblicità. E questo non mi piaceva. Con il tempo questa cosa l'ho digerita, mi è passata».

Come ci è finito nella vasca da bagno in bella vista negli schermi di tutta Italia?

«A un certo punto della carriera, mi sono messo a fare le musiche per le pubblicità, i cosiddetti jingle, quindi in vasca ci sono finito frequentando quell'ambiente. In un'agenzia internazionale, la Lintas, dove andavo a portare dei nastrini da un quarto di pollice, che si usavano allora, mi hanno detto Franco guarda, stiamo lanciando un nuovo prodotto e tu potresti andare bene. Per il ruolo di testimonial nello spot che dovevano girare come concorrente c'era l'attore Peter Sellers. Alla fine di tanti test è emerso che avevo un volto adatto, rassicurante per la massaia media. Evidentemente ero uno da coccolare (ride, ndr), un buono. E così la cosa si è fatta ed è andata avanti dal 1968 al 1977».

Tanti anni di Carosello, ma il filmato sarà stato girato solo una volta vista la fastidiosa immersione in acqua

«Non una volta soltanto, si girava ogni volta o quasi, ma non in acqua. Andavo a Roma e giravamo due o tre storie diverse. Una settimana di produzioni. L'effetto vasca veniva creato con un gioco di specchi. Se fossi stato per davvero in ammollo il prodotto versato avrebbe opacizzato completamente il tutto. Per cui c'era la vasca e io stavo dietro. E a proposito dei viaggi romani, mi capitava di andarci con l'amico Angela, che sento ancora. E che quando ho fatto la festa-concerto al Teatro Dal Verme di Milano per i miei 90 anni è venuto appositamente da Roma per farmi una sorpresa, ha suonato con me due pezzi, un bel regalo».

Finito con il detersivo Bio Presto ha fatto qualcos'altro nel campo pubblicitario?

«No, finito quello nient'altro. Anni dopo però, un'altra agenzia che aveva questo prodotto, mi ha cercato con un'idea che non era male ma non ho comunque fatto. La storia doveva essere questa: io seduto con la chitarra sulle ginocchia mentre scrivevo musica. A un certo punto il din don del campanello e alla porta c'era la stessa vasca piena d'acqua che tornava dell'uomo in ammollo che tornava a cercarmi. Idea creativa, ma non se ne fece niente».

E per quanto riguarda le musiche pubblicitarie ce n'è qualcuna rimasta «famosa»?

«Ho scritto quella per le caffettiere Bialetti, il coretto che faceva prodotto Bialettiiiii; inizialmente l'ho considerata una cosa così, da poco, non l'ho neppure depositata per eventualmente avere i diritti d'autore. E invece ha funzionato molto bene ed è stata utilizzata per tanti anni. Io, a parte i soldi ricevuti per la sua ideazione, poi non ci ho guadagnato più niente. Poi, tra quei motivetti, mi viene in mente quello della Moplen, la marca di casalinghi, dove il testimonial era Gino Bramieri».

Insomma, ce ne è abbastanza per girare un film

«In effetti qualcuno ci ha già pensato: un caro amico che si chiama Nanni Zedda. Sta realizzando un documentario che si intitola Franco Cerri, l'uomo in Bemolle. Per questo progetto ha coinvolto diversi personaggi, come il pianista Stefano Bollani, i trombettista Paolo Fresu, Ottavio Missoni e George Benson. Una sorta di docu-film che dura circa un'ora e la preparazione è in fase di chiusura».

Gran finale in jazz, come vede ora il genere a cui si è dedicato per tutta la vita, come va l'arte dell'improvvisazione in Italia?

«Mah, ci sono musicisti che fanno del bel jazz, ne fanno un po' e poi si devono adeguare alle richieste del pubblico e proporre quello che va per la maggiore. Una volte c'era più jazz autentico, nel senso che forse lo si suonava anche di più. Uno dei problemi è che questo genere non viene promosso più di tanto, in televisione e nelle radio. E l'utente, lo spettatore del piccolo schermo di casa, si adegua a quello che passa il convento. Poi, c'è troppa offerta di tutto, troppi film, troppa musica, troppe mostre. Non si sa più dove andare. E la politica dell'intrattenimento comanda. Poi c'è stato l'avvento dell'elettronica, che ha cambiato moltissimo la situazione: prima per incidere un disco si chiamavano i musicisti in carne e ossa, ora i dischi si possono fare da soli in casa».

La musica che cosa è per lei oggi

«Ancora, c'è tanta roba che ho nella testa. Magari mi sveglio di notte e penso in musica. E mi viene voglia di scrivere dei nuovi arrangiamenti, armonie diverse».

C'è una domanda che in oltre 90 anni non le hanno mai fatto nessuno?

«Si, non mi hanno mai chiesto che ore sono, perché spesso non indosso l'orologio». Risposta da Franco Cerri.

Sorride ironico, imbraccia la chitarra e si mette suonare.

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