Domani accadde

Esplosivo come un'atomica e per questo chiamato bikini

Il 5 luglio 1946 lo stilista francese Réard lanciò un ridotissimo due pezzi chiamato con il nome dell'atollo del Pacifico, poligono nucleare degli Usa. Talmente scandaloso da non trovare una modella che lo indossasse, dovendo ripiegare su una spogliarellista. Divenne subito popolare

Esplosivo come un'atomica e per questo chiamato bikini

Ci sono voluti circa 200 anni, durante i quali le sue dimensioni si sono ridotte, lentamente ma inesorabilmente, fino al traguardo finale: due esili pezzettini di tessuto per coprire a mala pena le «pudenda». Era il 5 luglio 1946 e la prima mannequin, in realtà una spogliarellista di professione, poteva farsi fotografare con un costume da bagno ridotto all'osso, un piccolo reggiseno e un ancora più piccolo slip. Era nato il «bikini» un modello che avrebbe avuto effetti «esplosivi» e per questo venne battezzato dal suo creatore con il nome dell'atollo che proprio quell'anno era diventato poligono per i test nucleari americani. Più «esplosivo» di così!
Finiva dunque un percorso iniziato a metà del Settecento quando i primi bagnanti iniziarono a scoprire le gioie della villeggiatura al mare. Nulla di paragonabile a oggi, tanto per cominciare non si andava certo per la tintarella, abbronzarsi era considerato plebeo. La pelle scura infatti era tipica di contadini, pescatori e tutti quei lavoratori costretti a lunghe esposizioni ai raggi solari. Una carnagione candida, viceversa, era segno di signorilità. Quando dunque i primi privilegiati in grado di permettersi lunghi periodi di ozio iniziarono a immergere timidamente i loro piedi nelle acque, di mari o laghi, bisognava pensare a un abbigliamento acconcio. I primi costumi da bagno andarono così a coprire quasi interamente il corpo, lasciando esposti solo piedi, mani e volto. Per le donne in particolare erano previste particolari «gonne da bagno», fatte di tessuto che non potesse diventare trasparente, appesantito sui bordi affinché non si alzasse in acqua scoprendo le gambe. E spesso neppure questo era ritenuto sufficiente a tutelare il «comune senso del pudore», e con il diffondersi del turismo «di massa» cominciarono a proliferare i bagni divisi. Uno dei quali resiste ancora in Italia, a Trieste, dove la discesa a mare è rigidamente separata: maschi di qua, femmine di là, divisi da un alto muro. E pensare che in passato non era sempre stato così, basti osservare gli affreschi romani di villa del Casale a Piazza Armerina, in provincia di Enna, in cui sono rappresentate ragazze che giocano all'aperto indossando nientemeno che un due pezzi. Rosso ovviamente perché essendo la tintura più costosa, era anche questo segno di ricchezza.
Le dimensioni dei costumi da bagno restarono pressoché inalterate per quasi un secolo e mezzo, perdendo al più qualche centimetro, ma con estrema lentezza. Nel 1907, la nuotatrice australiana Annette Kellerman durante uno dei suoi spettacoli di nuoto sincronizzato negli Stati Uniti, venne infatti arrestata perché aveva braccia, gambe e collo scoperti. Ma fu l'ultimo sussulto di un Ottocento bacchettone che tardava ad andare in archivio. Dopo la Grande Guerra i costumi andarono rapidamente rimpicciolendosi, dapprima scoprendo le braccia, in seguito le gambe, le cosce, quindi il collo ed il décolleté. Si diffuse rapidamente il pezzo unico e fece qualche timida apparizione il due pezzi, anche se reggiseno e mutande avevano dimensioni tali da lasciar scoperto «in mezzo» solo pochi centimetri di pelle. Si chiamava «Atome», proprio per le sue ridotte dimensioni, era stato creato nel 1934 dallo stilista francese Jacques Heim che lo aveva lanciato come «il costume da bagno più piccolo al mondo».
La Seconda Guerra portò uno sconvolgimento che scosse alle fondamenta le società Occidentali, le donne erano entrate in fabbrica per sostituire mariti e fratelli al fronte e non ne sarebbero più uscite. Anche perché la strage era stata così grande che non c'erano abbastanza braccia maschili per far funzionare gli opifici. Mentre anche gli ultimi Paesi in cui il voto alle donne era interdetto, introdussero il suffragio davvero universale. Insomma la donna si era fatta più indipendente, più consapevole del proprio ruolo. Erano cambiati i costumi. Compresi quelli da bagno.
E il 5 luglio del 1946 il sarto Louis Réard, riprendendo l'idea del connazionale Heim, presentò a Parigi il suo modello di due pezzi, con reggiseno e slip, ridotti ormai a due microscopici pezzi di cotone. Per il nome, si ispirò all'atollo delle isole Marshall, proprio nel bel mezzo dell'oceano Pacifico, che gli Usa stavano utilizzando come poligono nucleare. Réard infatti era convinto che il nuovo costume avrebbe avuto effetti «esplosivi e dirompenti» come le atomiche americane. Lo stilista non si scordò del suo predecessore e volle in qualche modo omaggiarlo. Se il motto di Heim era stato «Atome, il costume più piccolo al mondo», il suo fu «Bikini, più piccolo del più piccolo costume da bagno al mondo». Quasi come un rilancio al poker. E in effetti era abbastanza scandaloso tanto che all'inizio Réard non riusciva a trovare una modella a cui farlo indossare, dovendo alla fine ripiegare su una «professionista», Micheline Bernardini, spogliarellista, di chiare origini italiane, presso il Casino de Paris.
Bikini divenne subito una sorta di «topos» tanto che ogni altro stilista non poteva fare a meno di manipolarne il nome. Equivocando, più o meno volontariamente, sul termine, quasi quel «bi» iniziale stesse per «due». Già nel 1967 veniva introdotto il «trikini» dove ai primi due pezzi si andava ad aggiungerne un terzo, un top più ampio o un pareo. Poi con l'arrivo della rivoluzione sessuale postsessantottina arrivò il topless (letteralmente privo, less, del pezzo sopra, top). In pratica le sole mutande. Suo mentore fu lo stilista austriaco Rudi Gernreich che ne disegnò infinite variazioni lanciandolo sul mercato come «monokini». Con gli anni si è ulteriormente ridotto soprattutto nella parte inferiore, diventata perizoma o tanga, lasciando ormai poco o nulla all'immaginazione, soprattutto per quanto concerne il «lato B».
Innovazioni che tuttavia non hanno offuscato il ricordo di Ursula Andress in «Agente 007, licenza di uccidere» primo film dell'epopea bondiana datato 1962. L'attrice usciva dall'acqua come Venere dall'onda indossando un due pezzi bianco e si incamminava sulla spiaggia tropicale cantando «Underneath the mango tree». Svegliando un Bond dormiente sotto una palma e con lui sterminate platee maschili in tutto il mondo. La Andress scatenò con quel bikini un'energia che sembra ancor'oggi lontana da esaurirsi. Nel 2001 infatti quel costume da bagno è stato battuto all'asta per 61.500 dollari, pari a oltre 47mila euro.

Alla faccia dei «monokini» e di tutti i «lati B» ormai alla mercé di sguardi indiscreti.

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