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A caccia di cibo tra i cadaveri. Dopo il tifone è lotta per vivere

Nelle Filippine si va a caccia di cibo tra i cadaveri. Chi è scampato cerca acqua e pane e dà biglietti ai reporter per contattare i familiari

A caccia di cibo tra i cadaveri. Dopo il tifone è lotta per vivere

Dopo il tifone, la pioggia torrenziale, i venti a 313 chilometri orari, le onde alte sei metri, il fango e la piena e le case che crollavano come bastoncini, dopo la furia e la distruzione di Haiyan c'è ancora un peggio da affrontare per le popolazioni delle Filippine: la disperazione che ha ricoperto i vivi e i morti, come la neve di Joyce sulla gente di Dublino, senza distinzione, indifferente alle loro sorti. Perché i destini dei sopravvissuti somigliano sempre più a quelli dei cadaveri in mezzo ai quali camminano, cumuli di morti fra i quali si aggirano affamati e assetati, con le mascherine o il naso tappato, alla ricerca di qualunque cosa possa aiutarli a recuperare un po' di forze e di speranza. A Tacloban, a Samar, a Cebu chi è scampato al tifone cerca senza sosta cibo, acqua, un riparo per riposare, che non siano detriti e strade sporche e invase da macerie e carcasse e resti umani.

«Mancano bare e generi alimentari», «il tanfo dei cadaveri è insopportabile», «isolati per giorni, in cerca di pane e acqua», «ora la paura è il colera», «i cadaveri non si riescono né a seppellire né a contare»: questo raccontano volontari e testimoni, mentre i sopravvissuti rovistano fra le rovine dei supermercati, alcuni gruppi assaltano i convogli, altri ancora tentano la fuga assediando i voli umanitari. In quel che resta dell'aeroporto di Tacloban - racconta la Bbc - c'è la fila per cercare di salire a bordo di uno degli aerei per Manila, la capitale rimasta intoccata dal disastro, dove molti hanno dei parenti.

Quello delle comunicazioni coi familiari è un capitolo a sé, doloroso e incredibile nel mondo iperconnesso dove tutti sono sempre in contatto con tutti: nelle zone distrutte dal tifone, senza strade e senza elettricità e linee telefoniche, i pochi reporter sono stati riempiti di messaggi da parte dei sopravvissuti, ansiosi di fare sapere ai loro cari che semplicemente sono vivi. Bigliettini scritti sulla carta, sui piatti, sulle scatole, su quello che capita e poi inquadrati dalle telecamere oppure postati sui social network e sulle pagine internet dedicate alla tragedia: un tramite quasi misericordioso per portare le loro notizie, per rassicurare i familiari, per fare ottenere, a volte, un piccolo aiuto.

Perché anche se la macchina umanitaria si è mossa, con la comunità internazionale che ha già sbloccato 54 milioni (13 sono arrivati solo dalla Ue), le Nazioni unite ieri hanno chiesto uno sforzo pari a 301 milioni di dollari nei prossimi sei mesi, per sostenere la ricostruzione e assistere le popolazioni. I numeri parlano di circa 700mila sfollati e un totale di dieci milioni di persone colpite dalla tragedia, mentre ieri il presidente Aquino ha voluto ridimensionare la stima di diecimila vittime solo a Tacloban e ha parlato di «almeno 2.500 morti». Ha detto che quelle cifre «potrebbero essere state influenzate dall'emotività», però sono ancora da contattare 29 municipalità. In Vietnam Haiyan ha causato quattordici vittime, altre cinque nel sud della Cina.

La Farnesina è riuscita a contattare quattro dei dodici italiani di cui si erano perse le tracce. Il viceministro degli Esteri Dassù ha detto che i quattro «stanno bene» e che «pochi» mancano all'appello, ma che «i numeri non sono certi e c'è un problema enorme di comunicazioni».

Una piccola unità con strumenti satellitari sarà inviata per rafforzare le ricerche.

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