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Addio Shevardnadze il freddo che sciolse l'Unione Sovietica

Fu l'alter ego di Gorbaciov, l'ultimo ministro degli Esteri dell'Urss. Demolì il Patto di Varsavia e la cortina di ferro

Addio Shevardnadze il freddo che sciolse l'Unione Sovietica

Quando la radio ha smesso per un minuto di trasmettere la solita deflagrante rumba estiva per leggere un essudato del notiziario quotidiano, e fra le news ha sentito quella sulla morte di Eduard Shevardnadze, Grazyna Szpindor ha avuto un momento di... commozione magari no, ma di malinconia sì. Come se si fosse aperto all'improvviso, e un po' a tradimento, l'album dei ricordi. E ora la memoria vaga, gli occhi fissi sul profilo dell'Etna che fumiga a sud est, nella caligine pomeridiana. Bionda, occhi azzurri, polacca di una cittadina dal nome impronunciabile vicino Cracovia, Grazyna lavora in un bel bar affacciato sullo Stretto di Messina, fra Reggio e Cannitello. Ma ci sono giornate, e questa è una di quelle, in cui basta un pretesto, e quell'epoca – il papa polacco, Solidarnosc, il Partito che aveva i giorni contanti ma sembrava ancora intramontabile come il leone della Metro Goldwin Meyer - ;ci sono giornate in cui l'amarcord di quand'erano tutti comunisti, ufficialmente, si riaffaccia con un sentimento che negli anni ha preso la tinta della nostalgia e del rimpianto. Nei primi anni Ottanta, Grazyna faceva le scuole medie a Dinòw, tre ore di automobile da Cracovia. Plagiata da una sua insegnante, fervente compagna, si era iscritta al Mlodzi Komunisci, il partito dei Giovani Comunisti. «“Sei la pecora nera della famiglia, ti ammazzo”, mi rimproverò mio padre, che faceva il tifo per Walesa e la sua Solidarnosc, e vedeva il generale Jaruzelski come il fumo negli occhi». A Mosca, la terra promessa del comunismo mondiale, imperava la coppia Gorbaciov-Shevardnadze. «Anni in cui la meritocrazia – ricorda Grazyna - contava ancora qualcosa. Certo, magari non c'era una gran libertà, ma se valevi, se ti impegnavi a scuola, nella società, andavi avanti. Il Partito sapeva riconoscere i meritevoli. Bè, ci sono voluti un po' di anni, ma alla fine mio padre, di fronte alla corruzione, al malandare, alla mancanza di regole portate da quella che chiamano democrazia ha dovuto ammettere che quel giorno ebbe torto a rimproverarmi».

Di quegli anni Shevardnadze, morto ieri a 86 anni, fu uno dei protagonisti indiscussi. Ex presidente georgiano, ma soprattutto ex ministro degli Esteri dell'Urss e braccio destro di Mikhail Gorbaciov, Shevardnadze fu il notaio che decretò, suo malgrado, la fine di quella che ai tempi della Guerra Fredda si chiamava Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Nato a Mamati, in Georgia, e succeduto a una delle ultime mummie del Cremlino, quell'Andrei Gromiko che aveva guidato la politica estera dell'Urss per 28 anni, Shevardnadze giocò un ruolo chiave nella fine dell'Impero consentendo ai Paesi satelliti dell'Urss di scegliere liberamente il proprio destino, senza pressioni e senza (soprattutto) la canna del kalashnikov alla tempia. Era la fine di un principio cardine dell'Impero, il principio leninista di solidarietà internazionalista tra Paesi socialisti «fratelli». Fu lui, sulle ali della perestrojka e della glasnost, a normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti, a decretare lo scioglimento del Patto di Varsavia e la fine della cortina di ferro che portò all'unificazione delle due Germanie.

Figura carismatica di tempra non inferiore a quella di Gorbaciov, finì per entrare in rotta di collisione con l'inventore della perestrojka, quando il coraggio iniziale di Gorbaciov lasciò il posto all'arrendevolezza, alla titubanza, se non addirittura all'acquiescenza di fronte ai «duri» del partito, che in extremis tentarono il tutto per tutto per riportare la Storia al tempo del Politburo. Si dimise dal suo incarico e dal Pcus per affiancare, nell'agosto del '91, il presidente della Federazione Russa, Boris Eltsin, nella denuncia del golpe. Resse ancora per qualche tempo il ministero degli Esteri per ritirarsi poi nella sua Georgia (fu presidente dal 1995 al 2003) lacerata da lotte tribali nelle quali l'ex plenipotenziario di una Potenza Mondiale si era ridotto – fatte le debite proporzioni, s'intende - a fare un po' come il sindaco di una cittadina, tipo Ciriaco De Mita a Nusco. Un tramonto inevitabile.

Ma anche una sorta di benservito della Storia per quello che, pensa la polacca Grazyna (e come lei molti di quelli convinti, a Mosca e dintorni, che si stava meglio quando si stava peggio), per il «distruttore» della Grande Unione Sovietica.

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