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In cella l'avventuriero da romanzo che vuole rifare grande la Russia

Ennesimo arresto per Limonov, scrittore protagonista del best seller di Carrère. Dipinto come nemico di Putin, ma in realtà lo critica perché è troppo "morbido"

In cella l'avventuriero da romanzo che vuole rifare grande la Russia

Si può avere l'opinione che si vuole, di Eduard Veniaminovich Savenko, scrittore e dissidente russo arrestato l'ultimo dell'anno a Mosca nel corso di una di quelle cicliche, microscopiche (mai più di 100, 150 persone) radunate sediziose con cui da circa 2 anni, ogni 31 del mese, quando gli riesce, sfida il regime di Vladimir Putin. Certuni dicono che Eduard Savenko, detto «Limonov» (granata), è un avanzo della Storia, un guitto, un nazional bolscevico di vecchio conio (così si definisce lui, del resto). Altri sostengono che sia invece un angelo della democrazia, ma di una democrazia specialissima, con un tocco di lager, all'occorrenza, di cui lui solo (e forse qualcun altro dei 25 che lo hanno seguito sul cellulare a capodanno) pare conoscere la ricetta.
Settant'anni il prossimo febbraio, baffi alla D'Artagnan e pizzo alla Trotzki, una vita alle spalle con cui se ne sarebbero potute confezionare altre sette, Limonov si merita di certo il romanzo-biografia (caso letterario in un anno rivelatosi piuttosto avaro, sul punto) che Emmanuel Carrère gli ha dedicato, intitolandolo tout court col nome con cui tutti conoscono Limonov: Limonov. Un nome che basta e avanza, per chi avrà voglia di leggere il racconto di una vita tutta genio e sregolatezza cui si sarebbe dedicato volentieri anche un Alexandre Dumas, per dire.
A Limonov, Putin non piace. Questo è sicuro. Ma non per i motivi a cui state pensando. Non gli piace perché lo giudica troppo morbido, troppo liberale. Si sono trovati d'accordo solo quando Putin, aprendo l'ennesimo capitolo di una Guerra Fredda mai chiusa nel cuore di chi è stato sconfitto dalla Storia, ha deciso che gli orfani russi non andranno più negli Stati Uniti. Né in America né altrove, aggiunge Limonov, sostenendo non senza ragioni che nelle adozioni deve prevalere il «diritto alla madrepatria».

La protesta del 31 di ogni mese (nell'ultima Limonov sembrava particolarmente in forma, col suo berretto nero spolverato di neve) ha a che fare con l'articolo 31 della Costituzione russa che garantisce, cioè garantirebbe, la libertà di riunione.
Da dove cominciare, per raccontare la vita e il carisma luciferino di Limonov? Nato in una cittadina di provincia della Russia si trasferisce a New York dove alterna la frequentazione di certi circoli radical chic a squallidi motel i cui principali clienti sono gangster di mezza tacca e prostitute. Poi a Parigi, e quando scoppia la guerra nei Balcani al fianco di formazioni nazionaliste serbe come le «tigri di Arkan».
Limonov la carogna, il perdente, il ladro, il perdigiorno, dicono i suoi detrattori. Un uomo guastato dalla sua stessa biografia, lui figlio di un cekista, ovvero della prima polizia politica sovietica, che invece di far rigare dritto i delinquenti, come pensava Limonov da piccolo, faceva salire sui treni piombati la gente da spedire in Siberia.

Carrère, come si legge nel risvolto di copertina del libro che in Italia è pubblicato da Adelphi lo descrive così. «È stato teppista in Ucraina, idolo dell'underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell'immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio». Un uomo temerario, scandaloso, bello e dannato come un personaggio di Cèline. La figura più alta di un'opposizione troppo eterogenea e frammentata per impensierire davvero Vladimir Putin. Gli altri, tutti gli altri, al suo confronto, sembrano banali accidenti della storia recente. Il blogger Alexei Navalni, l'oppositore Ilia Iashin. Li arrestano, li rilasciano, e il giorno dopo tutto torna come prima. «Non resta che Limonov», dicono i giornalisti occidentali accreditati a Mosca.

Ma per fare che, nessuno lo sa davvero.

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