Mondo

«Così sono sopravvissuto a un lager nordcoreano»

«Così sono sopravvissuto a un lager nordcoreano»

Lavori forzati dall'età di sei anni, pena di morte per ogni violazione del codice di comportamento, torture, cibo scarso al punto che per integrare la dieta si arrostiscono topi, mangiati senza nemmeno scartare le ossa.
Difficile pensare a inferni peggiori dei Lager nazisti o dei Gulag sovietici, ma i campi di detenzione del regime comunista della Corea del Nord suggeriscono un esperimento ideologico-biopolitico ancora più radicale e inaudito di quelli che storicamente conosciamo. Proprio in questi giorni l'America sta tentando la carta della diplomazia per fermare lo scontro che Pyongyang potrebbe innescare attaccando la Corea del Sud e respingendo ogni forma di dialogo. Forse il gioco di minacce dichiarate e trattative segrete è l'unica strada: ma l'America e il mondo devono sapere che hanno di fronte un regime capace di orrori uguali a quelli che loro stessi hanno combattuto durante la Seconda guerra mondiale.
Secondo le organizzazioni umanitarie gli internati nei campi del Nord del paese sarebbero oltre 200mila, e i morti, solo negli ultimi trent'anni, sarebbero oltre 500mila. In Corea del Nord si può essere arrestati anche per aver usato una pagina di giornale con il ritratto di un (più o meno «caro») leader per farne una cartina da sigaretta. Niente processo, fine pena mai. Persino i figli e i nipoti dei deportati, nati nei campi di concentramento, vi restano, assoggettati allo stesso regime dei genitori. Inconsapevoli che esista un mondo al di là della doppia recinzione elettrificata.
Persino la prospettiva di un'evasione è inconcepibile. Tanto è vero che nella storia concentrazionaria della Corea del Nord, l'episodio si verificato solo in un caso.
E il caso è quello di Shin Dong-Hyuk, nato nel 1983 all'interno di Camp 14. Figlio di due internati non precedentemente sposati (nel suo caso la madre era stata concessa «in premio» al padre per meriti di lavoro), è riuscito a evadere nel 2005, ed è diventato un attivista per i diritti umani.
Un film, girato dal tedesco Marc Wiese, e presentato in questi giorni al festival Le Voci dell'Inchiesta di Pordenone, racconta la storia di Dong-Hyuk; si intitola Camp 14. Total control zone. Oltre a una lunga intervista a Dong-Hyuk, contiene anche le testimonianze di due kapò nordcoreani e dei filmati agghiaccianti di interrogatori. Le parti all'interno del campo sono raccontate a fumetti. Wiese, che ha girato nei posti più duri del mondo, dalla Bosnia alla striscia di Gaza, è venuto a sapere della storia di Dong-Hyuk leggendo un breve articolo sul Washington Post, e subito si è messo a caccia del protagonista. Con grande sorpresa ha notato che Camp 14 era perfettamente visibile su Google Earth: «È ancora lì. Chiunque può vederlo» racconta Wiese al Giornale: «È il carattere della moderna società dell'informazione: vedi le cose, ma oltre la superficie è quasi impossibile sapere e agire». Attraverso una serie di contatti con i servizi segreti sudcoreani è anche riuscito a rintracciare i due kapò: «Fatte le interviste è stato molto difficile inserirle» commenta Wiese. «Non volevo dare l'impressione che fossero dei mostri. Perché la realtà è che costoro non sono dei mostri, ma uomini, esattamente come lei e me. Usati, “formattati” dal sistema. Così li ho ripresi anche a casa, al lavoro, volevo farli vedere come erano: bravi padri di famiglia, con moglie, figli».
La banalità del male, l'onnipotenza dell'ideologia: il primo ricordo di Dong-Hyuk risale a quattro anni di età, ed è una esecuzione pubblica nel cortile del campo. Quando ha 14 anni i genitori vengono sospettati di attività illecite, e Dong-Hyuk viene interrogato, torturato col fuoco, gettato in una cella: e nel film mostra una per una le deformità e le cicatrici che gli sono rimaste. Quando ritorna alla «normale» vita del campo è costretto ad assistere all'esecuzione della madre e del fratello. L'evasione nel 2005 avviene superando la linea elettrificata, usando come passerella il corpo bruciato del compagno di evasione. «Chiunque, con quello che ha passato sarebbe seduto in un ospedale come una larva, pieno di farmaci» commenta Wiese. «E invece Shin adesso vive la sua vita, lavora. Ha una forza straordinaria» conclude. Ma per una storia con lieto fine centinaia di migliaia sono destinate ad andare diversamente.

Per conferma basta un'occhiata a Google Earth.

Commenti