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L'ultimo tabù dei «verdi»? Una roccia

C'è una rivoluzione energetica in atto, si chiama gas di scisto (shale gas, in inglese) e che questa volta sia vera, lo si deduce dall'attacco che arriva da Hollywood. È in uscita a gennaio negli Stati Uniti, infatti, un film (Promised Land, Terra Promessa, presentato anche al recente festival di Roma) che prende di mira la tecnologia del fracking (rottura idraulica), con cui si estrae gas naturale da strati di roccia argillosa trasformata da cambiamenti di pressione o temperature. Il film prende spunto da una storia vera, quella della cittadina di Dimock, in Pennsylvania, dove il fracking viene accusato di inquinare le falde acquifere. Peccato che nella realtà i giudici intervenuti sulla vicenda abbiano giudicato inconsistenti le accuse, e altrettanto abbiano fatto alcuni studi in materia, come quello dell'Università del Texas di Austin. Ma di tutto questo il film, ovviamente, non tiene conto.
In realtà il fracking è una tecnica già inventata nel 1947, ma solo in anni recenti è diventata efficiente sia per l'applicazione di nuove tecnologie meno costose sia per l'aumento del costo del petrolio, fattori a cui si sommano considerazioni geopolitiche.
Grazie al gas di scisto, infatti, - unito ai nuovi depositi di petrolio - oggi gli Stati Uniti vedono a portata di mano l'obiettivo dell'autosufficienza energetica, un sogno che finora sembrava irrealizzabile, e un risparmio notevole sui costi. Secondo alcune stime, lo sfruttamento del gas di scisto potrebbe generare una ricchezza valutata in 332 miliardi di dollari, e 2,4 milioni di posti di lavoro entro il 2035. Eccesso di ottimismo, secondo alcuni, ma un dato certo è che nel territorio statunitense sono intrappolati nello scisto 132 miliardi di metri cubi di gas, concentrati soprattutto in 4 stati: Texas, Arkansas, Louisiana, Pennsylvania. E alcuni risultati sono già stati ottenuti: dal 2003, quando l'applicazione delle nuove tecnologie è stata avviata, negli Stati Uniti sono stati aperti ben 6200 pozzi, e il gas di scisto già oggi rappresenta il 20% di tutto il gas consumato negli Stati Uniti, con la prospettiva che superi il 50% entro venti anni. Le conseguenze sono enormi dal punto di vista dei costi energetici: solo negli ultimi 5 anni il prezzo del gas naturale negli Stati Uniti è sceso del 75%, e promette di scendere ancora nei prossimi anni, mentre ai livelli di consumo attuale si può calcolare che ci siano riserve disponibili di gas per altri cento anni. Una delle conseguenze è che gli Stati Uniti stanno cominciando a fare a meno del carbone, che in parte viene esportato verso l'Europa, e - contrariamente alla stessa Europa - si avviano a rientrare nei parametri del Protocollo di Kyoto per quel che riguarda le emissioni di anidride carbonica, senza aver imposto alcun limite. Dal 2005 infatti, e quasi esclusivamente per merito del gas di scisto, le emissioni di CO2 degli Stati Uniti sono diminuite dell'8,6%, una media che rende agevole raggiungere l'obiettivo del -17% (rispetto al 2005) entro il 2020. Questo spiega anche l'atteggiamento poco interessato degli Stati Uniti alla Conferenza sul Clima appena conclusasi a Doha con il solito accordo-fallimento sulla proroga del Protocollo di Kyoto. Allo stesso modo la previsione di poter nei prossimi anni fare a meno dell'importazione di petrolio dai paesi arabi (anche per la maggiore estrazione di petrolio prevista all'interno degli Stati Uniti) ha già portato il Dipartimento di Stato americano a mutare l'atteggiamento in Medio Oriente, come il sostegno alla cosiddetta «primavera araba» dimostra. Peraltro le grandi compagnie petrolifere - americane e non - si sono già gettate sull'affare shale gas, che può diventare un'alternativa allettante anche per la trazione dei veicoli. L'olandese Shell, ad esempio, sta espandendo i piani per utilizzare il gas naturale come carburante per navi e camion fino a 5 milioni di tonnellate l'anno, l'equivalente di 120mila barili di petrolio al giorno.
A essere presa in contropiede dalla rivoluzione del gas di scisto è l'Europa, stretta tra i veti degli ecologisti e le pressioni della russa Gazprom, da cui i paesi della Ue dipendono in gran parte per l'approvvigionamento di gas. Però anche qui qualcosa si sta muovendo: mercoledì scorso il Regno Unito ha compiuto il primo passo per dare il via alle esplorazioni, dopo che un anno fa era stato fatto esplicito divieto per motivi ambientali, e si può stare certi che ci sarà una forte accelerazione dopo che è stato annunciato che solo nel sottosuolo di Blackpool c'è gas disponibile per oltre 50 anni. Sicuramente però altri importanti depositi di shale gas sono stati già individuati in diverse zone d'Europa. In Italia per il momento non sono stati identificati depositi di gas di scisto, ma anche l'Eni si sta muovendo per posizionarsi in questo mercato: ha acquistato licenze per l'esplorazione nel Baltico e sta investendo anche in Canada e Stati Uniti.

Insomma, manca solo che se ne accorgano i governi europei.

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