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Obama lascia dietro di sé un Medio Oriente profondamente cambiato

Dopo quattro anni di tensioni politiche e personali ristabilita la fiducia (reciproca) fra il presidente Usa e Nethanyahu

Obama lascia dietro di sé un Medio Oriente profondamente cambiato

Il presidente Obama lascia dietro di sé un nuovo Medio Oriente. Non è, certo, quello profetizzato da Shimon Peres fondato sulla collaborazione israelo palestinese integrata in un comune sviluppo tecnologico ed economico. Ancor meno è il Medio Oriente proposto dal principe ereditario saudita a Fez nell’agosto del 1981 fondato sul riconoscimento del diritto d'Israele di vivere “in pace e sicurezza” nelle frontiere del 1967. E’ un Medio Oriente nuovo, trasformato da tre fattori: la guerra religiosa fra sunniti e shiiti; la “primavera araba”; la rivoluzione petrolifera.

Sulla guerra religiosa islamica c’è stata una lunga sottovalutazione di questo conflitto da un occidente laico e dimentico delle sue guerre di religione (un terzo della popolazione europea distrutta da guerre, malattie e carestie da esse prodotte).

Sulla “primavera araba” c’è stata l’ignoranza di quanto avveniva nel mondo arabo ritenuto controllabile da pare di regimi autoritari legati all’occidente; il “mantra” di una pace legata alla soluzione del conflitto palestinese, ritenuto causa prima dell’ostilità musulmana per l’Occidente e i suoi valori umani e democratici.

Sulla rivoluzione energetica c’è stata la trasformazione degli Stati Uniti da maggiore cliente energetico del mondo arabo a più grande esportatore di energia (grazie allo sviluppo delle tecniche di estrazione dalle sabbie petrolifere e dal gas) e di Israele da cliente a produttore d’idrocarburi.

Questi tre cambiamenti della situazione media orientale non devono far dimenticare l’impatto di altri fattori: le disastrose guerre americane in Iraq e Afganistan, la crisi economica, l’emergere della Cina come principale cliente del petrolio medio orientale e come concorrente politico e strategico di Washington. Nell’immediato, tuttavia, la visita del presidente Obama in Israele, Palestina, Giordania ha messo in luce i seguenti fatti:

1) Dal momento che Washington riduce il suo coinvolgimento nel Medio Oriente, la soluzione del conflitto palestinese passa in seconda linea, obbligando le parti a negoziare direttamente senza condizioni pregiudiziali (questo significa il consiglio ma non l’obbligo, al palestinese di non insistere nel riconoscimento di uno stato sovrano all’ONU e agli israeliani di non continuare nella costruzione d’insediamenti nelle zone occupate);

2) Dal momento che la responsabilità del contenimento del conflitto sunnita-shiita e delle sue conseguenze passa alla Turchia e all’Arabia saudita (guerra civile in Siria, possibile ricaduta sul Libano tramite gli Hizbollah fedeli a Teheran e ad Assad, problema umanitario rappresentato da settanta mila morti e oltre un milione di rifugiati), due potenze sunnite minacciate dall’Iran shiita, cambia il ruolo di Israele. Lo stato ebraico diventa anello indispensabile di questo nuovo fronte.

3) La prima conseguenza di questa nuova ottica strategica di Washington si è manifestata nel corso del viaggio del suo presidente in quattro atti significativi:

a) Ristabilimento della fiducia reciproca fra Obama e Nethanyahu dopo quattro anni di tensioni politiche e personali;

b) Riuscito intervento telefonico, drammatico e personale di Obama dall’aeroporto di Tel Aviv per il ripristino dei rapporti di collaborazione fra Gerusalemme e Ankara (scuse formali di Netanyahu a Erdogan per l’uccisione di otto turchi sul ponte della nave Marmara, intesa a rompere il blocco di Gaza nel 2010; ripristino degli ambasciatori e ripresa della collaborazione strategica);

c) Possibile collaborazione anti Iraniana fra Israele e gli Emirati del Golfo esposti in prima linea dall’offensiva shiita (e forse nuovi discreti contatti fra Israele e i Sauditi);

d) Immediati aiuti finanziari ai palestinesi di Ramallah (500 milioni di dollari) e ai giordani (200 milioni).

Come nelle guerre, i cambiamenti drammatici del genere sono visibili all’inizio ma impossibili da prevedere come andranno a finire. Questo nuovo Medio Oriente basato soprattutto sulla paura araba-turca-israeliana dell’atomica iraniana è fragile e il suo sviluppo richiede un’intelligenza, un coraggio politico ancora tutti da provare sia da parte israeliana sia palestinese. Per questo pensare che il sole di una nuova era stia sorgendo per il Medio Oriente è prematuro.

Ma un certo ottimismo nei confronti di questa zona travagliata e vitale per l’Europa è lecito dopo tanti anni di follia e di giustificato pessimismo.

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