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Patto fra Europa e Usa Libero scambio anti-crac

Tra Bruxelles e Washington potrebbe realizzarsi la madre di tutte le intese commerciali: un «asse» che controllerà la metà degli scambi mondiali, creando milioni di posti di lavoro, su entrambe le sponde dell'Atlantico. Grazie all'accordo di libero scambio, infatti, la crescita nel Vecchio continente, secondo stime dell'esecutivo Ue, dovrebbe aumentare ogni anno di 86 miliardi di euro - lo 0,5% del Pil - e di poco meno per gli Usa, dove l'impatto sarebbe dello 0,4% del Prodotto interno lordo, 65 miliardi di euro. Cifre che pesano ancor di più se si pensa che Europa e Stati Uniti insieme rappresentano metà del Pil mondiale e quasi un terzo dei flussi commerciali dell'intero pianeta.
Un rapporto privilegiato, quello fra i due continenti, che, dalla scoperta di Colombo in poi, non si è mai interrotto. Da una parte all'altra dell'oceano si scambiano ogni giorno beni e servizi per 1,8 miliardi di euro, una cifra che non ha paragoni nelle relazioni tra qualsiasi altro Paese: 646 miliardi di dollari di interscambio solo nel 2012. E che fa di Ue e Usa, reciprocamente, il primo partner commerciale l'uno dell'altra: il 14% degli scambi europei sono diretti verso gli Usa, che a loro volta hanno una percentuale vicina al 18% del loro export diretta verso i 27 Paesi dell'Unione Europea. Per l'Italia, poi, gli Usa rappresentano il secondo mercato di esportazione.
Anche gli investimenti rispettano la stessa proporzione, mettendo, per una volta, la Cina in secondo piano: gli investimenti americani in Europa sono pari a tre volte quelli fatti in tutta l'Asia, mentre la Ue ha indirizzato negli Usa otto volte la cifra che ha investito in Cina e India messe insieme. Tanto che un terzo di tutti gli scambi da un continente all'altro avviene in pratica «dentro casa», cioè all'interno delle grandi multinazionali, da una società controllata all'altra.
Tutto liscio, dunque? Non esattamente. E lo dimostra il fatto che le diplomazie commerciali dei due Paesi sono al lavoro da anni- a partire dall'ormai storico progetto del Tafta, l'area di libero scambio transatlantica - ma la strada verso l'accordo è ancora agli inizi. Non è tanto questione di dazi in senso classico: Bruxelles stessa considera le barriere tariffarie molto basse, inferiori al 3% in media, in alcuni casi appena superiori al 2 per cento, tanto che in tutto dazi e tariffe equivalgono circa al 4% del valore degli scambi. Certo, le cifre finali sono comunque colossali - solo le imprese chimiche europee nel 2010 hanno versato quasi 700 milioni di euro al fisco americano - ma questo si deve soprattutto al volume imponente delle merci scambiate.
I veri ostacoli sono in realtà le cosiddette «barriere non tariffarie»: un complesso e articolato insieme di restrizioni varie derivanti da sistemi di regolazione profondamente diversi, per quanto riguarda standard tecnici, norme di sicurezza e procedure di valutazione. L'esempio più significativo è il settore alimentare, sottoposto alla spada di Damocle degli Ogm, ancora tabù in Europa ma non negli Usa: e non a caso, il presidente della commissione europea Barroso ha detto subito che gli organismi geneticamente modificati resteranno fuori dai negoziati. Ma non basta a sciogliere tutti i nodi, a cominciare da quelli che penalizzano il nostro Paese: l'«Italian Sound», i prodotti d'imitazione che di italiano hanno solo, e vagamente, il nome, come il Parmesan prodotto in Canada, o i controlli rigidissimi per scoraggiare le importazioni negli Usa di olio d'oliva.


La caduta delle barriere, però, avrebbe anche effetti positivi per quanto riguarda altri settori, come l'abbigliamento, ad oggi rigidamente protetti dagli Usa: cadrebbero anche gli ostacoli che impediscono alle società europee di partecipare a gare per appalti pubblici negli Usa.

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