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"Quell'italiana già sapeva della morte dei ragazzi rapiti"

Dopo il sequestro mette on line una foto choc: lei che davanti a un forno fa un gesto con tre dita. Poche ore prima del ritrovamento: "Ora via le dita"

"Quell'italiana già sapeva della morte dei ragazzi rapiti"

«Samantha Comizzoli sapeva, sapeva dove stavano, sapeva che li avrebbero ritrovati». È questa l'accusa che circola sul web contro una giovane donna di Ravenna. Al centro, c'è la vicenda dei tre ragazzi israeliani rapiti mentre facevano autostop, assassinati e ritrovati tre giorni fa in condizioni pietose. Ma c'è anche il mondo composito e radicale degli italiani schierati «senza se e senza ma» con la resistenza palestinese in tutte le sue forme più estreme, compresa Hamas e anche oltre Hamas. Di questa galassia, Samantha Comizzoli fa parte, per sua stessa ammissione e rivendicazione. Ha numerosi fan, e anche numerosi contestatori. Adesso le piove addosso una accusa che trascende la radicalità delle scelte politiche. Quella di avere prima irriso ai tre ragazzi rapiti, e preannunciato poi la loro morte prima ancora che i corpi venissero ritrovati. Accuse che la Comizzoli respinge. Ma intanto il caso della ragazza romagnola agita i social network, rimbalzando tra il fronte dei solidali (a distanza di sicurezza) dell'Intifada e gli amici a tutti i costi di Israele.

La fotografia che dà il via alle polemiche viene postata dalla Comizzoli nel corso del sequestro di Eyal, Gilad e Naftari. C'è lei, che fa il segno «tre» con le dita davanti a un forno acceso. É il forno di una pizzeria. Ma non è difficile immaginare quali terribili allusioni vengano colte dietro quella location. Così sull'attivista ravennate iniziano a piovere accuse. Lei, la Comizzoli, con una intervista al sito ravennaedintorni.it smentisce le interpretazioni malevole: «stavamo facendo il pane», spiega. «E quel gesto con le mani non si riferiva affatto ai tre ragazzi israeliani, ma è un simbolo di resistenza». Neanche il tempo di fare l'intervista, ed il putiferio riparte: colpa di un altro post della Comizzoli, «domani mi sa che mi faccio fare una foto senza dita». Una battuta fuori misura, o il preannuncio del ritrovamento dei corpi? Poche ore dopo, i cadaveri dei tre ragazzi riaffiorano.

E così riparte la bufera, che investe insieme alla Comizzoli un po' l'intera galassia dei militanti filopalestinesi che sui blog raccontano il dramma di Gaza dalla parte delle presunte vittime. Uno schieramento acceso e risoluto. Lei, Samantha, da tempo pendolare tra la Romagna e Nablus, già di recente si era ritrovata al centro delle critiche: quando aveva pubblicato la foto raggelante di un bambino palestinese morto, spiegando che si trattava di una vittima dei bombardamenti israeliani. Poi si era scoperto che il piccolo non era stato ucciso dai missili con la stella di David ma da un razzo palestinese, partito da Gaza e finito per errore sulle case degli arabi. Ma secondo Samantha non cambia niente: è Israele, lo Stato «nazista», a portare per intero le responsabilità del conflitto, e quindi anche le vittime accidentali vanno messe sul conto del governo di Gerusalemme. Una interpretazione che raccoglie critiche, ma anche entusiasti clic «mi piace».

Ma lei chi è? Diplomata al Dams di Bologna, candidata sindaco di Ravenna nel 2011 per la lista civica antimafia «Punto a capo» (voti totali 618, pari all'1 per cento) nell'intervista racconta di essere scesa in Palestina per girare un film come attivista dell'International Solidarity Movement, e di avere deciso di non andarsene più: e ammette che i suoi post sono «assolutamente sopra le righe, super sopra, visto quello che fanno loro (gli israeliani, ndr). Se posso vado tre volte sopra le righe, io guardo negli occhi una mamma alla quale hanno ammazzato il figlio e non riesco a dirle nulla, solo a piangere, quello che posso dire lo dico poi divulgando la notizia e cerco così di canalizzare la rabbia».
Ribadisce di non avere voluto rivendicare il rapimento dei tre ragazzi, ma esclude che il delitto sia opera della resistenza palestinese.

E annuncia querele, attraverso lo stesso avvocato della famiglia di Abu Omar, il terrorista egiziano rapito dalla Cia a Milano nel 2003.

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