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La rivoluzione incompiuta dell'ultimo Caudillo rosso

Pittoresco e carismatico ha tentato di resuscitare il comunismo. Un riscatto per i più poveri, non ha vinto corruzione e inflazione

La rivoluzione incompiuta dell'ultimo Caudillo rosso

Ambiva a diventare, nell'immaginario collettivo, il successore del suo maestro Fidel Castro, invece è morto prima di lui, dopo avere lottato invano per quasi due anni contro un cancro alla regione pelvica. Con la scomparsa a soli 58 anni di Hugo Chavez, da 14 presidente del Venezuela e da almeno dieci punto di riferimento per tutte le sinistre latinoamericane, la geopolitica del nuovo continente è destinata a subire importanti mutamenti. L'inventore della «rivoluzione bolivariana», che pur con le dovute differenze e una forte componente nazionalista somigliava a un tentativo di resuscitare nell'America del Sud quel comunismo sconfitto in Russia, nell'Europa dell'Est e perfino in Cina non lascia successori dotati nè del suo carisma, né della sua disponibilità di petrodollari con cui comprava il favore dei piccoli Paesi; e senza di lui, anche il tentativo di costituire un solido asse antistatunitense, che doveva coinvolgere non solo Cuba, la Bolivia, il Nicaragua e l'Ecuador, ma anche Paesi lontani come l'Iran, la Corea del Nord e - fino agli ultimi avvenimenti - perfino la Siria rischia di perdere rapidamente di consistenza. Adesso, entro trenta giorni, si svolgeranno nuove elezioni, in cui il successore designato di Chavez, il ministro degli Esteri Nicolas Maduro, dovrà vedersela con il giovane e brillante Henrique Capriles, che dopo avere unificato dietro di sè l'opposizione borghese era riuscito nelle presidenziali dell'ottobre scorso (vinte ancora da uno Chavez già malato e poi incapace di prestare giuramento) a ottenere il 44,13% dei voti e adesso ha buone speranze di farcela. Ma anche nell'ipotesi che Maduro, approfittando del clima emotivo suscitato nell'elettorato dalla fine prematura di un leader odiato dalle classi medie e alte, ma adorato dal proletariato delle periferie, riesca a farcela, il Venezuela non sarà più lo stesso. Washington, che considerava Chavez un avversario temibile e non gli ha mai perdonato di avere equiparato in un discorso all'ONU il presidente Bush al diavolo (nel 2004 gli americani contribuirono perfino a un tentativo di rovesciarlo), potrà tirare un sospiro di sollievo.

Ex ufficiale dei parà di origini indie, che già a neppure quarant'anni aveva tentato invano di impadronirsi del potere con un colpo di Stato, Chavez si è sempre appoggiato, nelle sue quattro vittoriose elezioni presidenziali (1999, 2000, 2006 e 2012), agli strati più poveri della popolazione, scatenando con il passare degli anni una vera e propria lotta di classe che ha finito con il polarizzare il Paese. Approfittando degli alti prezzi del greggio, di cui il Venezuela è il sesto produttore mondiale (e, un po' paradossalmente, uno dei principali fornitori degli Stati Uniti), ha migliorato le condizioni di milioni di poveri, costruendo case popolari, diffondendo l'istruzione, facendo arrivare acqua e luce dove mancavano e creando anche con l'aiuto dei medici cubani un embrione di servizio sanitario nazionale. Soprattutto, ha dato al «popolo dei diseredati» la sensazione di non essere più abbandonati a se stessi. Ciò nonostante, per vincere ha sempre dovuto ricorrere a brogli e sopraffazioni di ogni genere, cacciando via via dalle forze armate e dall'apparato statale tutti i suoi potenziali avversari, costringendo radio e televisioni private a seguire le sue direttive e alterando perfino a proprio favore gli equilibri della Corte suprema, portandola da 20 a 32 membri. Per finanziare la spesa sociale e la sua fantasiosa politica estera, ha nazionalizzato il petrolio e quasi tutta la grande industria, espropriato i grandi proprietari terrieri, spremuto le classi medie, ma i conti erano sempre in rosso. Con tutta la sua autorità, non è riuscito a risolvere i problemi di fondo: una corruzione rampante, una criminalità con poche eguali al mondo, una inflazione alimentata da una spesa pubblica fuori controllo e disfunzioni clamorose in una economia ormai controllata in buona misura dallo Stato. Tuttavia, i suoi fedeli tendevano a non attribuirne la colpa a lui, ma ai suoi collaboratori, e anche di fronte alle crescenti difficoltà quotidiane hanno continuato fino all'ultimo a inebriarsi al grido di «Chavez è la rivoluzione!».

Fin dal giorno delle sue esequie vedremo se ci sarà nell'America latina qualcuno capace di raccoglierne l'eredità. Maduro, se anche fosse eletto, non ne avrebbe il carsima.

I Castro sono a loro volta sul viale del tramonto, l'ecuadoregno Correa e il boliviano Morales sono troppo deboli, l'argentina Cristina Fernandez de Kirchner potrebbe essere tentata: ha imposto al suo Paese una deriva a sinistra e uno stile autoritario che all'ultimo Chavez piaceva molto.

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