
Anni di galera e una vagonata di rubli, richiesti dalla vittima a risarcimento del danno. Il giudice moscovita Yelena Maximova ha così stangato Pavel Dmitrichenko, ballerino del Bolshoi, cervello dell'attacco all'acido contro il direttore Sergei Filin. Movente: gelosia d'arte. Filin aveva scartato come stella del balletto la partner del reo, privilegiando una rivale. Le toghe dovrebbero imporre alla cricca (al mandante, agli autori materiali e ad Angelina Vorontsova, l'esclusa) un aggravio: la meditazione quotidiana di un passo del poeta greco Esiodo. Nel carme «Le Opere e i Giorni», Esiodo ci informa su due Rivalità che fermentano nell'uomo. Una è positiva: è l'emulazione operosa. Impastata di talento e di olio di gomito, è la macchina del progresso. L'altra, al veleno, istiga allo sgambetto. È il propellente dell'arrivismo senza scrupoli, che rende inaccettabili la sconfitta e il secondo posto, incitando alla ritorsione. Non alligna solo tra i comuni mortali. Il mondo degli artisti (per tacere di quello dei politici) ne è infettato. Il fulgore dei riflettori e l'ossessione del primato gettano benzina sul fuoco.
Altro che puri ideali, nel culto delle perfezione estetica. La celluloide è il pozzo nero degli aneddoti su rivalità, sotterfugi e colpi sotto la cintura. Un evergreen come «Via col vento», 1939, è l'eldorado per i cultori del piccante. Sul set, gelosie e insofferenze si tagliano con il coltello. Vivian Leigh, sostituta di Bette Davis, scartata a causa dell'incompatibilità con Errol Flynn, non solo non sopporta nelle scene d'amore l'alitosi micidiale di Clark Gable (rimpiazzo di Flynn nella parte del protagonista), ma ne definisce atroce lei, eccentrica londinese l'accento dell'Ohio. Nella finzione è la dolce e sensibile Melania Hamilton, ma nella realtà professionale Olivia de Havilland è un'arrampicatrice con il pugnale tra i denti. Fattasi amica della moglie di Selznick, il produttore, scalza tutte le rivali aspiranti alla parte, compresa la sorella, Joan Fontaine.
Far fuori l'antagonista è una pratica comune nell'arte. Vi ricorrono anche i geni. Leonardo sa che quel ragazzo, Michelangelo, può insidiargli la leadership a Firenze. Il suo David è uno schianto. Ma quando si tratta di deciderne la collocazione, il da Vinci, in commissione urbanistica, propone di defilarlo all'ombra della Loggia dei Lanzi: così, secondo lui, le pecche del marmo si noteranno di meno. Il Buonarroti attirava gelosie. Quando si trattò di appaltare l'affresco della volta della Sistina, il Bramante, factotum dell'edilizia papale, l'aveva caldeggiato al committente, Giulio II: ma solo per invidia, per dimostrare che l'arrogante scultore fiorentino, mago del marmo, con i colori era una schiappa.
Rivalità, gelosie, supponenza e follia sgretolarono la coppia male assortita Van Gogh-Gauguin. Il primo cercava nel secondo la stampella alla solitudine, alla disperazione che i pennelli e i colori non colmavano. Gauguin percepiva l'enormità geniale dell'amico antagonista, ma non l'ammetteva, e saliva in cattedra. «Con tutti questi gialli sui violetti, Vincent non riusciva a raggiungere che delle dolci armonie, incomplete e monotone; ci mancava lo squillo di tromba. Mi assunsi il compito di chiarirglielo, e mi fu facile», scrisse nelle memorie. Parole dettate dalla gelosia, non dalla sollecitudine, dal senso d'inferiorità di un artista incapace di accettare d'essere secondo nella volata dell'arte. Finì nel sangue, con Vincent che cercò di sfigurare il rivale prima con il bicchiere della sbornia, poi a rasoio sguainato, prima di mutilarsi.
Tra i letterati, la rivalità gelosa si panneggia nell'insulto poetico. Basta citare il Tommaseo, livido d'invidia per Giacomo Leopardi: «Natura con un pugno lo sgobbò: Canta gli disse irata, ed ei cantò». Un attacco violento come un colpo alle spalle.