Cultura e Spettacoli

Il "damerino" e il cowboy. Il grande duello tra Freud e Pollock

In due biografie le vite grandiose e antitetiche di Freud e Pollock, entrambi ribelli e star della pittura

Il "damerino" e il cowboy. Il grande duello tra Freud e Pollock

Se fosse sul ring, sarebbe l'incontro del secolo. Se le darebbero di santa ragione. Europa contro America. Figurazione contro Astrazione. Il primo, Jackson Pollock, un cowboy del selvaggio West, trapiantato sull'East Coast, allenato a New York da una talent scout del calibro di Peggy Guggenheim. Il secondo, Lucian Freud, il prodotto perfetto del Vecchio continente, nipote del più celebre Sigmund, tedesco emigrato a Londra e quivi entrato nel gotha dell'alta società. Entrambi ribelli, ma in modo diverso, pesi massimi della pittura novecentesca ai suoi vertici.

Basterebbe osservare i locali che frequentano per coglierne le differenze. Freud sembra un damerino, seppure déraciné nel suo look studiatamente casual, siede ogni giorno per pranzo al Clarcke's, ristorante di Kensington scicchissimo nel ricercato understatement . La padrona lo coccola, tanti dolci, ma anche paté, formaggi francesi, e buon vino. È lì che si attovaglia per anni con il suo biografo, Geordie Greig, buon giornalista, che ne ha sconfitto la ritrosia proverbiale e day by day ne trascrive i mémoires ( Colazione con Lucian Freud , Mondadori, pagg.266, euro 25).

Pollock, Jack per gli amici, scende invece alla Cedar Tavern di NY City, meta di artisti e scrittori del Greenwich Village (Kline, de Kooning, Rauschenberg, ma anche Ginsberg e Kerouac), e quando vi arriva, spesso, è già sbronzo. I fedelissimi che si affollano lo vogliono toccare, gli offrono da bere, lui nei Cinquanta è già un mito, e non manca di farsi notare, litiga, urla, bestemmia. In quell'antro fumoso lo insegue B.H. Friedman a cui si deve un'intensa biografia, che ovviamente non fu autorizzata ( Jackson Pollock. Energia resa visibile , Johan & Levi, pagg. 296, euro 31).

Sono due star, Jack e Lucian, a modo loro teste dure, epigoni di quella bohème parigina di inizio secolo che poi armi e bagagli si trasferisce a Londra e New York dopo la vittoria degli anglo-americani nella Seconda guerra mondiale. A dispetto delle apparenze e della mitologia è Freud (classe 1922) il più irrequieto: donnaiolo impenitente, due matrimoni, più di cinquecento amanti, quattordici figli sparsi al vento, qualche giovanile frisson omosessuale, un vitalismo oltre ogni limite, fino alla morte alla soglia dei novanta. Sfacciatamente egoista, capriccioso, rissoso, infedele al midollo, pessimo padre - guardandone una foto l'ex moglie lo definì «un Mefistofele nudo e paranoico» - la fece sempre franca in virtù di un carisma magico, di un fascino capace di ammaliare e sedurre, di un'intelligenza straordinaria, di una cultura raffinata. Ovviamente, al di là del gossip, di lui restano i dipinti. Mentre negli anni Sessanta l'astrazione imperversa stravincendo nel mondo, pochi artisti, per esempio il suo sodale Bacon (che lo ritrasse 18 volte), lasciati ai margini, insistono cocciuti con la figurazione e alla fine avranno ragione; nello specifico Freud ossessivamente dipinge solo la figura umana in studio: ritratto dopo ritratto, pose estenuanti di mesi e anni, notte e giorno, a cui costringe amici e sconosciuti, gente famosa o presa per strada, una sorta di dolorosissima analisi, di interminabile psicanalisi ricordando il nonno, in una sorta di «viaggio verticale» dentro la carne, in tele che strabordano di sessualità e sensualità e in cui «ogni centimetro di superficie va conquistato» - chiosava il critico Robert Hughes - «va dibattuto fino in fondo, porta le tracce della curiosità e dell'interrogazione».

All'angolo opposto c'è Pollock. Dovrebbe essere favorito nel combattimento. La foto che lo ritrae, calvizie avanzata, occhi cisposi, le prime rughe, sigaretta all'angolo della bocca, racconta però altro. Jack è un introverso, dietro l'aspetto rude si nasconde un carattere fragile. È in analisi con la moglie Lee Krasner, anch'essa pittrice. Beve per sostenere il peso di una creatività inseguita fin da adolescente, quando povero e vagabondo (era nato nel 1912 nel Wyoming) inizierà la carriera volendo diventare a tutti i costi «un Artista di qualche tipo». Morirà ad appena quarantaquattro anni (come Scott Fitzgerald), al culmine delle forze, in un incidente d'auto, forse ubriaco, forse suicidandosi (come James Dean, dodici mesi prima). La sua è una traiettoria breve e intensa: alcolista precoce e indefesso, si trangugia le avanguardie europee e il realismo della pittura americana in un sol sorso, per tuffarsi negli abissi dell'inconscio. Nel 1943 incrocia Peggy Guggenheim che gli commissiona un grande dipinto di sei metri. Con lei, che gli sarà mecenate e guida, avrà un rapporto di amore e odio, di sudditanza e ribellione: un giorno, durante un party di ricche signore, entra nudo nel salone di casa Peggy e si mette a pisciare nel camino.

Tra gli artisti della sua generazione è il migliore, carismatico sebbene indisciplinato, li sovrasta di una spanna. I critici se ne accorgono, il più influente Clement Greenber lo adora («è il più grande pittore apparso sulla scena artistica dai tempi di Miró»). Pollock porta alle estreme conseguenze l'automatismo psichico del surrealismo, si inventa il dripping e lo splattering , sgocciola e schizza colore sulle tele posate a terra, mischia astrattismo e simbolismo, in modo violento, selvaggio, romantico, cercando quella flatness (la piattezza) così di moda, finché Robert Coates s'inventa il termine «espressionismo astratto», tanto per marcare il territorio e ribadire che il nuovo centro di potere dell'arte mondiale è New York. Nel 1945, grazie a un prestito concesso dalla Guggenheim (in cambio di tutta la produzione a venire, fino a saldo), i Pollock si trasferiscono a Spring, poche miglia da East Hampton, in una piccola fattoria con granaio annesso che diventerà lo studio. Dieci anni di lavoro e genio, di euforia e depressione, sufficienti ad elevarlo nell'empireo dell'arte, un angelo destinato a cadere.

Poi, una specie di declino, proprio nel momento di massima visibilità internazionale. La personale del 1954 non funziona bene. Nel 1955, pur avendo solo quarantatrè anni, Pollock alla prima retrospettiva viene trattato come un vecchio maestro, appesantito e barbuto, da archiviare. E non sbagliano i detrattori: in cuor suo teme più di ogni altra cosa la tela bianca, un vero terrore che affronta con la bottiglia in mano. La sera dell'11 agosto 1956, Pollock sta rientrando in macchina con due donne: la paffutella Ruth Kligman, di professione modella, è la sua nuova amante. Qualche mese prima, la moglie Lee è partita per un viaggio in Europa, stufa di quella vita. Jack è solo, disperato, bisognoso di affetto.

A poche centinaia di metri da casa, perde il controllo della decapottabile; in un bosco di giovani querce si spegne la stella delle avanguardie made in Usa.

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