Cultura e Spettacoli

Faceva sorridere l’economia con l’ironia di Pulcinella

Giornalista e deputato, Cesare Zappulli scriveva di problemi finanziari e politici sempre con allegria. Ci ha lasciato 25 anni fa. Con una telefonata

Faceva sorridere l’economia con l’ironia di Pulcinella

Milano - Cesare Zappulli se n’è andato un quarto di secolo fa, il 29 giugno 1984. Con una lettera affettuosa la figlia Marcella ha ora chiesto un suo ricordo, sulle colonne del Giornale che gli fu carissimo, da parte delle persone «che più gli sono state vicine». Il direttore Mario Giordano, cui l’anagrafe felicemente impedisce i ritorni al passato remoto, mi ha chiesto di spiegare, ammesso che sia possibile farlo in una manciata di righe, perché Cesare sia stato unico. Mi ci proverò.

Non lo è stato per i suoi incarichi giornalistici, pur prestigiosi. Fu articolista del Messaggero - che lo ebbe anche corrispondente da Mosca -, del Corriere della Sera, del Mondo di Pannunzio, di Epoca, di Gente. E fu tra i fondatori del Giornale, al fianco di Montanelli. In queste tappe del suo percorso professionale Zappulli aveva sempre dimostrato d’essere chiaro, convincente, brillante (non senza concessioni allo sberleffo e alla battuta derivanti dalla sua tenace napoletanità). C’era quanto bastava, e avanzava, per collocarlo tra le migliori penne d’un giornalismo che di buone penne ne poteva vantare molte, e alcune eccellenti.

Ma tutto questo non avrebbe consentito di designarlo come unico. Il motivo dell’unicità era un altro. Cesare Zappulli, esperto di economia e spesso chiamato a pronunciarsi sui più affliggenti problemi economici e sociali d’Italia e del pianeta, riusciva a divertire occupandosi d’una materia che non potrebbe essere più grigia, se non lugubre. Miracolosamente, Cesare infondeva in quel materiale da «ragiunatt» la levità della sua natura e della sua cultura.

Ci sono stati altri divulgatori di economia dalla prosa accattivante, dalla dialettica impeccabile. Sergio Ricossa ne discetta con nitidezza settecentesca. Luigi Einaudi fu affascinante con le sue tesi paradossali, al disotto delle quali stava una logica ferrea (sostenne ad esempio che gli esportatori illegali di capitali erano benefattori della Patria, perché i capitali scappano quando governi dissennati e spendaccioni li dilapidano, e allora portandoli altrove li si salvano dallo scempio e li si preservano per una futura utilizzazione, quando sarà tornato il buon senso). Giù il cappello, di fronte a quelle firme che catturavano l’attenzione di chiunque leggesse.

Ma di economisti capaci di far sganasciare il lettore non ce ne sono stati altri paragonabili a Cesare Zappulli. Il quale accettò anche di cimentarsi nella politica come esponente liberale, prima alla Camera e poi al Senato. Due legislature gli bastarono. Si rese conto che né la sua intelligenza né la sua onestà erano, in quelle assemblee, qualità utili per emergere. Più tardi Montanelli riconobbe che la sua decisione di appoggiare, con tutta l’influenza di cui Il Giornale disponeva, le candidature di Zappulli e di Enzo Bettiza era stata un errore, e che ai giornalisti conveniva tenersi lontano dai Palazzi per tutelare la loro indipendenza.

Zappulli era un uomo amabile e divertente, capace di autoironia, incline a volte - per far contenti anche noi che gli volevamo bene - a evocare e invocare San Gennaro e altri santi tutelari del Vesuvio e dintorni. Guardava al mondo con lo scetticismo bonario dei saggi, senza illusioni e senza furori. C’era in lui un fondo di malinconia dissimulato con il bon mot e con la citazione colta. Accentuata fino al limite della disperazione, la malinconia, quando la sua Marcella - la figlia che ci ha scritto - fu tragicamente segnata da un banale incidente automobilistico. Gli rimaneva il lavoro. Gli rimaneva la prodigiosa facilità di scrittura. Gli rimaneva la conversazione. Finché il male che non perdona se l’è portato via a 69 anni. Pochi giorni prima che morisse gli avevo parlato al telefono e durante quel dialogo in cui, come succede, veniva ignorato proprio l’incubo sovrastante i dialoganti, m’era scappato stupidamente di chiedergli «Quando ci vediamo?». Con una voce sottile sottile, ma tranquilla, aveva risposto «Più avanti, Mario, più avanti».

Avevi ragione Cesare, c’incontreremo più avanti.

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