Il falso moralismo della sinistra

Pietro Mancini

Forse non ha torto l’acuto scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco quando sostiene che la sinistra, pur trafficando da sempre nel sottobosco della politica e della Rai, e pure intrattenendo rapporti con le soubrettes, riesce a gestire questi tutt’altro che commendevoli affari con maggior classe rispetto alla destra, più ingenua, volgare e «caciarona». Piero Fassino tuttavia avrebbe dimostrato maggior stile, risparmiando ai telespettatori di Ballarò il lungo e insincero comizio, teso a rivendicare al suo partito il primato della legalità e dell’immacolato spirito di etica pubblica, contrapponendolo alla infame «destra del malaffare», come il quotidiano dei Ds ha, di recente, mitragliato in prima pagina contro la Cdl.
«Io sono stato intercettato - ha detto Fassino, sfoderando un rigore sabaudo - ma non parlavo con una ballerina e non ho mai richiesto una raccomandazione per un mio elettore». Suvvia, segretario, ma pensa che gli italiani abbiano già dimenticato la sua esultanza, via cavo, manifestata a Giovanni Consorte («allora, compagno, abbiamo finalmente una banca»), per il tentativo di acquisizione, da parte del vertice Unipol, della Bnl? Sì, lei conversava, e non occasionalmente, con l’ex presidente di Unipol, inquisito insieme al suo ex vice Sacchetti dalle procure di Roma e di Milano e ai quali i magistrati hanno sequestrato 43 milioni di euro, ritenendoli di provenienza illecita. Soldi definiti dal deputato dalemiano Peppino Caldarola «eticamente discutibili». Fassino e D’Alema, oltre a dimostrare una caduta di classe per avere infierito sugli imbarazzi di Fini, in difficoltà per l’inchiesta di Potenza, non possono tentare adesso di risalire in cattedra, approfittando delle grane altrui, per impartire lezioni di moralità e di correttezza. E non possono nemmeno rivendicare quella loro presunta «diversità» che le turbolente vicende dei «furbetti del quartierino» avevano, l’estate scorsa, definitivamente spazzato via. Certo, Fassino, persona onesta, può, legittimamente, bocciare come «immagini di spaventoso squallore» le conversazioni tra alcuni personaggi di secondo piano, provenienti dal vecchio Msi, e ben disposte «veline». Ma, da leader politico accorto, il giovane e mesto Piero non può affrontare - come gli ha consigliato sul giornale più vicino all’Unione Francesco Merlo - il caso dell’ex portavoce del presidente di An, Salvatore Sottile, «con compiacimento pruriginoso, falso moralismo e finto stupore». In primo luogo, perché la sinistra non è in grado proclamare la propria estraneità nell’aver gonfiato quello che Merlo ha definito «la suburra, la gozzoviglia e il nutritissimo ceto sub-politico di viale Mazzini». Senza risalire ai tempi della presidenze Rai di Enzo Siciliano, imposto a viale Mazzini da Veltroni, di quella del rutelliano Roberto Zaccaria oppure di quella di Lucia Annunziata, designata da D’Alema, ci piace ricordare che nel 2002, qualche giorno prima della nomina di Antonio Baldassarre sempre alla presidenza Rai, proprio Fassino piombò, con Rutelli, da Pera e Casini, senza consultare gli altri partiti dell’Ulivo, portando un «pizzino» con due nomi «d’area progressista» che - secondo il Manifesto - «facevano quasi tenerezza per la loro inoffensività».
E, più recentemente, a proposito di lottizzazione delle poltrone pubbliche, D’Alema, per il suo primo viaggio da ministro degli Esteri negli Usa, ha tagliato fuori tutta la struttura dei diplomatici di carriera della Farnesina, facendosi accompagnare da un folto squadrone di consiglieri personali freschi di nomina tra cui la figlia del vecchio leader storico del Pci, Pietro Ingrao.
In secondo luogo, le prediche moralistiche a senso unico contro il malaffare e i traffici nel sottogoverno - che tentano di oscurare le eccessive e pacchiane gare, a sinistra, a chi compra le scarpe e le barche più costose - si riveleranno sterili e inutili, se non saranno seguite da tre impegni. Quello, possibilmente solenne e bipartisan, sul proposito, sinora solo delineato da Bertinotti, di bandire comportamenti disdicevoli e squallidi, sia nel costume privato sia quando si rappresentano le istituzioni. Il secondo impegno: andranno non più privilegiate e premiate sempre e solo la fedeltà e l’assoluta e cieca obbedienza ai capi, bensì i meriti e le capacità. E Fassino e Rutelli, invece di far la faccia feroce contro gli avversari per alcune conversazioni intercettate, convincano il presidente del Consiglio a ridurre drasticamente il «poltronificio» dopo l’invereconda carica dei 102, il numero dei membri dell’esecutivo Prodi. Non a fine legislatura, ma in occasione delle imminenti nomine nelle società pubbliche, sfoltendo i board e i pletorici consigli di amministrazione: attualmente Poste Italiane prevede 111 poltrone e Sviluppo Italia ben 119. Il terzo impegno va assunto, e possibilmente avviato, non per il ritorno ai nani e alle ballerine, di craxiana memoria, né ai vecchi partiti, come vagheggia Amato, ma per una profonda riforma delle organizzazioni di partito.

Sia per favorire maggiore controllo democratico, da parte dei militanti, sia per sottrarre, finalmente, tutte le nomine a quella che è stato definita la «familiarizzazione» della politica, fenomeno tanto diffuso quanto odioso e deprecabile.

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