Fame nel mondo, lo strabismo della Fao

Livio Caputo

Ormai è un appuntamento fisso: anche quest’anno, il rapporto annuale della Fao ci invita a cospargerci il capo di cenere perché, nonostante gli impegni assunti nel 1996 da 185 capi di Stato e di governo, non siamo riusciti a ridurre il numero degli abitanti del pianeta che soffrono la fame: 850 milioni erano all’inizio degli anni Novanta, 854 milioni sono oggi. L’obbiettivo fissato di ridurli a 415 milioni nel 2015 diventa pertanto sempre più irrealistico, perché, secondo il direttore dell’agenzia Jacques Diouf, «manca la volontà politica di mobilitare le maggiori risorse di cui il mondo dispone a favore degli affamati». Altri terzomondisti rincarano la dose, accusando in blocco governi occidentali, società multinazionali e sfruttatori vari.
La persistenza di quasi un miliardo di affamati è indubbiamente una tragedia di enormi proporzioni, ma è inaccettabile attribuirne la responsabilità solo all’egoismo dei Paesi ricchi. Anzitutto, la Fao farebbe bene a guardare in casa propria, perché è da sempre considerata una delle agenzie dell’Onu meno efficienti, un carrozzone burocratico che spende più della metà delle sue risorse per le proprie esigenze amministrative. In secondo luogo, basta guardare con attenzione la carta che accompagna il rapporto, da cui risulta con chiarezza quali Paesi hanno fatto passi avanti e quali passi indietro, per capire chi sono i veri colpevoli. Possiamo citare almeno quattro casi clamorosi, da cui si deduce che all’origine del male non c’è tanto l’insufficienza degli aiuti internazionali, quanto la follia di governanti che dilapidano le loro spesso cospicue risorse senza curarsi del benessere dei propri cittadini.
Esempio 1. L’unico stato sudamericano che fa registrare un «grave peggioramento», cioè un aumento della denutrizione superiore al 50%, è il Venezuela, quarto produttore mondiale di greggio, il cui presidente Chavez spende miliardi di petrodollari per costituire un’alleanza mondiale contro Washington e affermarsi come l’erede di Fidel Castro. Se invece di distribuire sussidi a mezzo mondo investisse questo danaro nella lotta alla denutrizione, il problema del Venezuela si risolverebbe da solo.
Esempio 2. In un’Asia che, nel complesso, fa registrare progressi sensazionali, con una riduzione del numero di affamati di quasi il 50 per cento sia in India, sia in Cina, l’evoluzione della Corea del Nord è stata simile a quella del Venezuela: un po' a causa della totale inefficienza del sistema comunista, un po' per le stravaganti spese per l’apparato militare culminate poche settimane fa nel primo test nucleare, il numero degli affamati è quasi raddoppiato, e una carestia ha fatto due milioni di vittime. Anche oggi, la popolazione dipende in larga misura dagli aiuti alimentari che riceve da Cina e Corea del Sud. Ma la colpa è della nostra presunta avarizia nel concedere gli aiuti, o del dittatore Kim Jong Il?
Esempio 3. Quando faceva parte dell’impero britannico, e nei quattordici anni di indipendenza sotto un governo di coloni, lo Zimbabwe era uno dei grandi esportatori di prodotti agricoli del continente africano e tutti avevano da mangiare a sufficienza. In 25 anni il presidente Mugabe lo ha mandato in rovina. La ragione principale, se non unica, di questo drammatico declino è l’esproprio e la cacciata degli agricoltori bianchi. Risultato: la denutrizione è aumentata di quasi il 50 per cento e la popolazione dipende dalla carità internazionale.
Esempio 4. Il Sudan è, potenzialmente, uno dei Paesi più ricchi dell’Africa, e ora che ha scoperto anche il petrolio, dispone di risorse finanziarie più che cospicue. Ma, tra la ventennale guerra civile tra arabi del nord e popolazioni nere del Sud (ora finalmente risolta) e la recente tragedia del Darfur con i suoi due milioni di profughi, ha visto aumentare drammaticamente il numero dei suoi affamati.
La Fao individua giustamente l’epicentro della crisi in Africa, dove il numero delle persone denutrite è passato in dieci anni da 169 a 206 milioni, ma la colpa non è tanto della comunità internazionale, quanto della frequenza delle guerre, della irresponsabilità dei governanti e anche del crescente rifiuto delle popolazioni a lavorare la terra, magari per tentare l’avventura in Europa come immigranti clandestini. È assurdo che, pur con i suoi deserti, le sue foreste tropicali, le sue invasioni di locuste e le sue croniche siccità, un continente vasto come l’Africa non riesca a nutrire la sua popolazione. Si spendano soldi per introdurre tecniche di coltivazione più moderne, si usino di più, se necessario, i prodotti geneticamente modificati, ci si applichi maggiormente alla ricerca dell’acqua, si riformi l’arcaico diritto di proprietà della terra, ma si riconosca anzitutto che tocca in primo luogo alla popolazione africana, e soprattutto ai governanti africani, fare fronte alla situazione. Puntare il dito contro governi occidentali (tra cui, in prima fila, l’Italia) che non hanno tenuto fede alle loro promesse di destinare agli aiuti percentuali crescenti del loro Pil è forse politicamente corretto, ma fornisce un quadro distorto della realtà.

Per molti Paesi dove la fame è un problema, più soldi porterebbero, allo stato attuale, solo più corruzione e magari più armamenti.

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