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"Fare del bene è un mestiere ma in Italia non ci sono regole"

La fondazione che porta il nome di sua sorella aiuta i bimbi del Centro America: "Per dedicarsi al volontariato non basta essere buoni"

"Fare del bene è un mestiere ma in Italia non ci sono regole"

Sua madre le dice sempre di vestirsi meglio e andare dal parrucchiere. Lei risponde che non ha tempo per queste cose. Ma Mariavittoria Rava è bella così. Fa volontariato con il ritmo di un treno in corsa, con quella gioia laica del fare e quella precisione che gli studi da avvocato le hanno dato.

Grazie alla fondazione che porta il nome di sua sorella Francesca, Mariavittoria e la sua squadra hanno costruito in soli tre anni il nuovo ospedale di Haiti e, da quasi 20 anni, gestiscono l'orfanotrofio assieme a Nph, Nostros pequenos hermanos. E poi sono a fianco dei bambini abbandonati di tutta l'America Centrale. Con la convinzione che per fare i volontari la bontà da sola non sia sufficiente, ma ci voglia professionalità.

Quella della sua fondazione è una storia di amore e impegno. Ma tutto nasce da un grande dolore.

«Sì, nasce dopo la scomparsa di mia sorella Francesca per un incidente d'auto sulla Bergamo-Milano. In quel momento nella mia vita è scesa una cortina di buio. Nessuno è preparato a perdere una persona cara, ma io lo ero proprio poco. Da lì mi sono azzerata e ho rimesso in discussione tutta la mia vita. Sono cambiati i miei obbiettivi. È stata una necessità».

Cosa le è scattato dentro?

«Avevo perso anche la fede. Poi mi sono ricordata di una promessa che io e Francesca ci eravamo fatte da bambine. Era il periodo dei rapimenti e, anche se la nostra non era una famiglia a rischio, ci eravamo dette: se mi rapiscono, cercami per sempre».

E lei l'ha cercata?

«Sì. Francesca andava sempre a Lourdes ad accompagnare i malati. L'ho fatto io al suo posto anche se, lì per lì, mi sembrava una stupidaggine visto che mai me ne ero interessata prima. Così è cominciato tutto. Ho incontrato un sacerdote messicano molto carismatico che mi ha acceso una fiammella. Mi ha consigliato: mentre rimetti ordine nella tua vita, comincia a fare qualcosa per gli altri. Ho iniziato a fare consulenze legali gratuite».

Già così è una bella storia. Ma non siamo nemmeno all'inizio, giusto?

«Un giorno mi chiese una consulenza l'associazione Nph (Nuestros pequenos hermanos) perché voleva aprire in Italia una sede per raccogliere fondi. Dopo poco, le due persone che stavano per avviare tutto, si tirarono indietro per problemi di lavoro. E continuai io. A motivarmi fu la storia del fondatore di Nph, me ne innamorai quando lessi il suo libro. Era un avvocato».

Come lei.

«Eh magari, lui era un santo. Soffriva di tiroide e andò a fare un viaggio in Messico. Lì vide i bambini di strada e non se ne andò più. Mi dissi: gli voglio dare una mano. E così è nata la fondazione. Con la liquidazione che ci ha dato l'azienda per cui lavorava mia sorella, ho creato il fondo economico necessario per partire. All'inizio lavoravo nel fine settimana. Poi ho tirato in mezzo mia mamma e le mie zie che erano appena andate in pensione».

Lavorare per la fondazione ha fatto bene a tutta la famiglia?

«Sì, fare del bene fa star bene. Sembra una banalità ma è una ricchezza che sperimentiamo tutti i giorni».

Com'è stata la prima volta ad Haiti?

«Era il 2000, sono andata là per conoscere padre Rick di Nph. Sono rimasta colpitissima dalla povertà infinita e dall'incredibile carisma di quest'uomo con i bambini dell'orfanotrofio. Gli confessai: ma io non sono in grado di fare tutto questo. Lui mi disse solo: quando hai dei dubbi chiediti sempre cosa faresti per i tuoi figli. Ecco, fai quello anche per gli altri».

A parte i pequenos hermanos, ha anche figli?

«Riccardo, 16 anni, e Francesco, 14 anni. Ho scoperto di aspettare Riccardo proprio mentre ero andata a visitare la casa di Nph in Messico».

Una vita decisamente intensa.

«Troppo. Mio figlio Francesco quando aveva tre anni mi ha detto: mamma, ma chi sono i bambini di Nph? Ho detto: sono bambini che noi aiutiamo perché non hanno la mamma e il papà ed hanno bisogno di amore. E lui mi ha risposto: allora anche io sono un bambino di Nph. Ero spessissimo via da casa. All'inizio in fondazione eravamo in tre. Facevo tutto, dall'ufficio stampa alla raccolta fondi. I miei figli ne hanno pagato un po' le spese. E pensare che mio marito, quando mi ha conosciuto, si era immaginato una famiglia normale. La mia vita invece ha sterzato, quando vedi certe cose non puoi farne a meno».

Ora i suoi figli hanno capito il senso di tutti i sacrifici?

«Ora sì. Partecipano ai campus e sentono che non è il volontariato che fai per qualcuno di inferiore a te, come spesso nella solidarietà accade. Hanno capito che i ragazzi di Haiti sono come loro, hanno la stessa dignità e la stessa intelligenza, solo hanno avuto meno opportunità. Anzi, quei ragazzi ti sanno amare con la semplicità e il sorriso che qui non c'è più così spesso. Qui c'è competizione, la nostra società dà poco spazio per i valori semplici e ti incita a combattere. Qui ci sono tanti ragazzi annoiati. Quando vengono ai nostri campus svoltano».

Ci racconti un po' dei campus ad Haiti? Voi avete aperto i viaggi a tutti. Chi viene con voi?

«Io considero il volontariato un privilegio, non un atto eroico. Siccome ho sempre portato i miei figli, allora ho voluto dare questa opportunità anche ai figli dei donatori e dei volontari. E poi ho aperto i viaggi a tutti. All'inizio è stata una cosa un po' pionieristica. Ora abbiamo tantissime persone che vogliono partire con noi. Sono famiglie con figli, padrini di adozioni a distanza. Poi ragazzi dai 14 in su che hanno capito che questa esperienza insegna molto e, al posto dell'alternanza scuola-lavoro, vengono in questi campus. E guadagnano anche crediti formativi. Ci sono ragazzi più grandi che si vogliono mettere in gioco staccandosi dai genitori».

E poi ci sono anche tanti personaggi famosi.

«Noi li chiamiamo testimoni. Con noi sono venuti Martina Colombari, Raoul Bova, Paola Turci. E da poco Arisa che, dopo il viaggio, ci ha scritto: ho fatto un bagno in quell'umanità che non trovavo più da tempo qui».

Nei villaggi che aiuto portate?

«Tinteggiamo, peliamo le patate, giochiamo con i bambini, organizziamo laboratori e tornei sportivi. Ognuno porta il suo talento. Se c'è da costruire il sentiero lo facciamo, coltiviamo i campi. L'anno scorso a Natale abbiamo costruito un pollaio per 2mila polli».

I bambini orfani saranno felicissimi di avervi lì.

«Molti di loro non hanno i documenti né il certificato di nascita, sono figli di persone che li hanno abbandonati. E vedere noi è uno stimolo grandissimo, aprono la mente al mondo. Ma anche loro ci regalano tanto».

Al di là del lavoro pratico, qual è il vostro senso della missione?

«Dare se stessi. E paradossalmente è molto più difficile che prendere in mano un pennello e dipingere una parete. Ci si mette in gioco e si abbatte ogni barriera, si può dare il cuore e farlo con grande umiltà».

Dal terremoto di Haiti del 2010 avete imparato a gestire l'emergenza. La vostra esperienza è stata utile anche per il terremoto nel centro Italia?

«Cosa fai se ti chiamano e dicono che tuo figlio sta male? Corri. Noi abbiamo fatto così. In Haiti abbiamo imparato che bisogna agire subito e coordinarsi molto bene con chi è in prima linea, essere veloci e concreti e non duplicare le azioni. Subito dopo il terremoto in Italia, abbiamo contattato la Protezione civile e il ministero e abbiamo chiesto cosa potevamo fare. Ci hanno chiesto di occuparci delle scuole provvisorie, fondamentali per non far spopolare i paesi e per ridare normalità alla vita. Abbiamo subito cercato le aziende con cui lavorare».

La burocrazia, gli appalti e i subappalti sulle casette per i terremotati hanno creato parecchi problemi. Voi siete stati decisamente più veloci.

«Gli enti pubblici sono obbligati agli appalti, poi c'è chi li sa gestire meglio o peggio. Il terzo settore ha la forza (e il dovere) di agire perché è scevro da tutte queste burocrazie. Abbiamo però fatto convenzioni scritte con ministero e Protezione civile».

Ecco l'anima dell'avvocato.

«Va bene il cuore, ma ci vuole anche professionalità. Abbiamo vincolato la disponibilità del terreno della scuola per evitare che i nostri sforzi finissero in niente. Ci siamo assicurati la destinazione permanente della scuola a uso educativo perché in futuro non diventi un centro commerciale ma resti a servizio della comunità. È nostro dovere garantire i nostri donatori e raccontare che fine fa la loro donazione».

Spesso dietro alla solidarietà si celano affari poco limpidi. Cosa pensa dello scandalo Ong e al business sui migranti?

«C'è il bene che non fa rumore e il male che fa rumore. Se ne sentono tante, anche nel terremoto di Haiti ho visto cose che non mi erano piaciute ed è brutto constatare che, in situazioni in cui dovresti solo pensare a fare del bene, ci sia anche del business. Però c'è un magistrato che se ne sta occupando. Se veramente ci sono situazioni poco trasparenti è giusto che vengano esaminate e portate a galla per tutelare i migranti. Ma è sbagliato creare tanta confusione finché però non vengono fuori le informazioni giuste».

Episodi come questo fanno male a tutto il volontariato?

«Io per necessità ho l'abitudine a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Penso che il donatore, se gli vengono date le informazioni giuste, sappia scegliere».

Però un donatore si scoraggia a sapere che anche dietro la donazione di 1 euro tramite sms c'è una mala gestione.

«Tutto questo andrebbe maggiormente disciplinato. In Inghilterra e negli Stati Uniti ci sono più regole e c'è un registro con l'obbligo di iscrizione per tutti gli enti. C'è più trasparenza».

Servono più regole per le donazione del 5 per mille?

«Bisogna chiarirsi bene sull'obbiettivo del 5 per mille perché magari il proliferare di associazioni provoca un po' di dispersione. Io son sempre dell'idea che l'importante è che i soldi vadano a buon fine, piccola o grande che sia l'associazione. Ma bisogna essere più attenti ai requisiti per l'iscrizione perché ci siano vere utilità sociali dei progetti».

Cosa va corretto nel volontariato italiano? La gestione dei soldi è sempre il punto debole.

«Semplicemente vanno aiutati gli enti perché con regole chiare anche chi non è del mestiere sa in che direzione deve andare. Chi è in buona fede e magari non è molto organizzato ha difficoltà a redigere bilancio. Serve più chiarezza. Non è vero che fare del bene basta, bisogna farlo bene».

Insomma, non è sufficiente essere buoni?

«No, bisogna fare del bene con professionalità, che non significa essere la multinazionale del non profit. Vuol dire sapere che anche in un'associazione di volontariato devi essere efficiente e usare bene i soldi. In Italia c'è un po' l'idea che il volontario sia improvvisato. Invece il volontariato va considerato una professione per cui va bene il cuore ma occorre anche imparare a fare questo mestiere. Non è giustificabile fare i volontari solo perché si è buoni».

Chi lavora con voi?

«Abbiamo una decina di persone fisse e un'infinità di volontari. Dalle signore che preparano le bomboniere alle mie zie che rispondono alle lettere. L'amministrazione è gestita da un volontario, ex contabile, bravissimo. E poi c'è chi coordina i volontari che vanno sulle barche della Marina militare, i campus estivi. Infine ci sono i gemellaggi con gli ospedali. I medici di Haiti vengono in Italia a fare formazione. I nostri medici invece vanno là a insegnare.

Però tornano dicendo che hanno imparato».

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