Cultura e Spettacoli

Farinacci, il Roberspierre della rivoluzione fascista

Intransigente e istrione fino alla fine, si considerava (ed era considerato) l’«anti-Duce». Una biografia ne ripercorre la parabola politica

Mussolini, irritato e imbarazzato per il suo purismo rivoluzionario e per l’intransigenza dinanzi alla pastette affaristiche del sottobosco politico, lo liquidò sprezzantemente con una battuta: «Il solito provinciale». E lui, Roberto Farinacci, continuò imperterrito a richiamare il fascismo agli ideali della prima ora e a tentare di legalizzare l’«illegabile», ossia lo squadrismo.
La parabola politica di Farinacci, ras di Cremona, ha creato non pochi disagi e vuoti nella stessa storiografia fascista. Il motivo è evidentissimo: si considerava, e molti lo consideravano, l’«anti Duce», l’alternativa più valida a un capo di governo che scendeva a patti con i moderati e poneva lo Stato, più che il partito, al centro di tutto. A delineare la controversa figura del provinciale in camicia nera è Roberto Farinacci, ovvero della rivoluzione fascista (Le Lettere, pagg. 460, euro 28,50, in libreria da domani). L’autore è Giuseppe Pardini, docente di Storia contemporanea nel Molise.
Farinacci, già impiegato delle Ferrovie (riuscì poi a laurearsi in Legge), nacque politicamente socialista sotto l’ala del riformismo di Leonida Bissolati. Emerse anche per l’indubbio coraggio fisico e di manifestare apertamente dissensi e consensi. Affascinato dall’azione, dalla passione più che dal calcolo, onesto e orgoglioso d’esserlo, girava spesso armato di una piccola pistola che teneva legata a una gamba, mostrava un contegno sfrontato, aveva il vezzo di guardare tutto e tutti con il mento alzato. Si staccò dal socialismo e aderì ai Fasci. Vide nel Fascismo l’alternativa vera al leninismo e alla mollezza democratica, ed era convinto che solo le forze interventiste (il Paese era lacerato sul dilemma se entrare o no in guerra) potevano guidare l’azione di ricostruzione e rinnovamento dell’Italia. Come? Con il Fascismo inteso come anti-partito o super-partito.
Nel Cremonese creò un modello di efficienza squadrista e questo lo evidenziò agli occhi di Mussolini, con il quale ebbe sempre un rapporto vivacemente dialettico che spesso sfociò in netta contrapposizione. Fortemente ancorato nella Padania, si oppose al trasferimento della direzione del Partito da Milano a Roma. E anche negli anni successivi guardò sempre con diffidenza «la malattia deputatizia» che imperava nella capitale del Regno. Le sue posizioni «nordiste» potrebbero indurre qualcuno a confrontarlo con Umberto Bossi: nel ’22 alzò la voce contro l’eccessiva tassazione e appoggiò lo sciopero fiscale (quello però ebbe successo...). Per alcuni anni fu segretario nazionale del Pnf, ma fu il suo radicalismo a emarginarlo. Continuò tuttavia nella sua battaglia tesa a costruire un partito di élite e non di massa («Io alle masse non credo»), a fascistizzare l’intero Paese chiudendo le maggiori testate giornalistiche, a imporre il credo «Nulla fuori dal fascismo, nulla contro il fascismo».
Farinacci risultò scomodo a Mussolini. Non a caso ripeteva di essere «un capo e non un gregario». L’apice dello scontro avvenne a Milano nel ’28, quando in città serpeggiò uno scandalo che se fosse scoppiato sarebbe stato poi da paragonare alla Tangentopoli del 1992. Fu Starace a indagare (in modo sbrigativo), ma la situazione era a dir poco imbarazzante per Mussolini. Il cremonese tuonò contro i «furfanti», dicendosi sicuro che il grosso prestito di una banca americana al Comune meneghino avesse partorito una tangente di cinque milioni, intascata dal podestà Belloni (spedito poi al confino), ma anche da Arnaldo Mussolini, fratello del «capo». Gli storici non hanno ancora fatto piena luce su quella corruttela, ma è certo che molti strati sociali del nord, industriali e professionisti di rango e portafoglio, elessero come bandiera del moralismo in politica proprio Farinacci. Dettero molto fastidio a Palazzo Venezia i rapporti dell’Ovra, la polizia segreta del regime, su manifesti e riunioni di frondisti pronti a seguire l’anti-Duce. Come inquietarono il governo le voci del «Partito del fante», presunta alleanza tra Farinacci e il principe Umberto, erede al trono. Il ras di Cremona cercò l’alleanza con il giovane Savoia: l’idea era di cambiare il vertice italiano. In ogni caso le carte di polizia non inchiodarono mai Farinacci.
Ci fu l’ennesima rappacificazione con Mussolini, o meglio un tollerarsi a vicenda tra mille sospetti, malgrado le bordate di critiche del «provinciale» contro la politica economica. Quanto al neonato nazismo, Farinacci passò da posizioni di critica e diffidenza a un plauso generale e a fitti rapporti con l’ammiraglio Doenitz. Più ambiguo il suo pensiero sulla questione razziale. Se all’inizio considerò pericolosa e ridicola la campagna germanica contro gli ebrei, alla fine la sostenne in modo strumentale partendo dall’assioma secondo cui bolscevismo ed ebraismo erano della stessa matrice. Disse a Mussolini di non credere ai principi scientifici a sostegno della supremazia della razza ariana, ma comunque aderì alle misure antigiudaiche.
Farinacci si avvicinò sempre più al regime di Hitler quando le vicende della guerra volsero al peggio. Il Robespierre della rivoluzione fascista non poteva ammettere il crollo dei suoi ideali. Intransigente e istrione fino all’ultimo, pagò con la vita il suo sogno di rinnovare dalle fondamenta lo Stato italiano.

Le raffiche dei partigiani cancellarono la sua vocazione alla palingenesi.

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