Controcultura

Il fascismo rosso e le "fascette" nere di Berto Ricci

Il suo foglio d'avanguardia chiamava gli scrittori all'impegno e strigliava gli editori

Il fascismo rosso e le "fascette" nere di Berto Ricci

Fiero fiorentino d'Oltrarno che pure magnificava l'italianità e l'Impero, spirito di parte e cultore della Patria, fascistissimo nel suo essere ultra rivoluzionario, mussoliniano ma critico, antiaccademico e coltissimo, populista e quindi antiborghese. Quante cose si possono fare e quante battaglie si possono combattere - vincendo, perdendo - in soli trentacinque anni. Quelli che aveva Berto Ricci (1905-41) quando morì, sul fronte libico, falciato dalla raffica di uno Spitfire, e gli inglesi erano il popolo che più detestava...

Libia... Oggi i nostri intellettuali - scrittori di un regime peggiore di quello di Ricci, il regime del conformismo - passano il tempo nei talk e su twitter a riempirsi la bocca: «Andate sulle navi a salvare i migranti!», «vanno aiutati, ma dallo Stato», «accogliamoli dall'Africa, poi vedremo che vita offrirgli»... Che è l'aggiornamento al tempo dei social dell'«armiamoci e partite». Loro parlano, parlano, parlano... ma non partono mai. Sono sempre lì, in tv o a scrivere pamphlet. Berto Ricci, che per le sue idee era disposto a tutto, in Libia, senza dire nulla, ci andò. E lì morì.

Ed è stato completamente rimosso: dalla storia, dal giornalismo, dall'intellettualità. In sé, un ottimo motivo per essere attualissimo. Berto Ricci, che non fu un fascista di ferro e mai neppure un antifascista, può essere ancora un esempio. Non ideologico, ma umano: di chi resta fedele a un'idea (socialista, vitalista, rivoluzionaria) e ribelle ai poteri (tutti). Infatti, politicamente, nacque anarchico. E morì senza cariche, senza cattedre, senza carriera. Oggi i Millennials lo irriderebbero. Lui, li capirebbe.

Capire Berto Ricci è difficile. Non fu uno scrittore con la «S» maiuscola come il suo omonimo Giuseppe, né un gerarca riverito come l'altro omonimo, Renato. Fu un professorino di matematica, ma innamorato della politica e del giornalismo. Anarco-socialista rivoluzionario e vitalista, flirtò col fascismo sin da subito o quasi, credette al fascismo rosso e morì in camicia nera, sognando l'Impero ma condannando le leggi razziali, dando tutto a Mussolini e ricevendo nulla in cambio (anzi, a un certo punto gli tolsero la tessera del Partito). A suo modo - fiducioso nel fascismo-movimento e dubbioso del fascismo-regime - un eretico.

Nella sua vita fece una grande cosa, che rimane ancora oggi. Superò il fascismo da sinistra, fondando nel 1931 la rivista L'Universale (criticatissima da Roberto Farinacci, il quale lo accusò di «bolscevismo») che raccolse nomi scelti e non allineati del Ventennio, tra cui Romano Bilenchi, Camillo Pellizzi, il «vecchio» Ottone Rosai e Indro Montanelli, amicissimo di Ricci (lo considerava «il solo maestro di carattere che abbia avuto»). Comunque l'ultimo numero dell'Universale uscì nell'agosto 1935. Scoppiata la guerra d'Etiopia, «non è più tempo di carta stampata». Era l'ora dell'azione.

L'ora del pensiero durò appunto pochi anni, meno di cinque, ma lasciò il segno. Lo si può intuire sfogliano un'antologia di quel «foglio d'avanguardia» quindicinale, confezionata dalle Edizioni del Borghese nel 1969 e oggi finalmente ripubblicata: Berto Ricci, «L'Universale». Contributi per un'atmosfera (Oaks editrice, pagg. 212, euro 18, prefazione di Michele De Feudis). Marcello Veneziani una volta ha scritto che L'Universale «fu una delle migliori riviste uscite nel Ventennio, scritta da ragazzi, da cui uscirono fior di fascisti, di antifascisti e di afascisti. Ne cito tre, uno per categoria: Diano Brocchi che restò fascista, Romano Bilenchi che diventò antifascista e Indro Montanelli che per decenni ondeggiò tra ricordi fascisti e rivendicazioni di antifascismo».

E se i collaboratori erano diversi e destinati a diverse strade, la rivista ne imboccò una precisa. «Abbiamo l'ambizione incredibile di portare la letteratura e l'arte all'altezza del primato. Saremo dunque universali, e contro qualunque resto di nazionalismo». La linea è chiara: no al campanilismo e all'accademismo. Sì al «populismo» e all'idea di Impero. No al nazionalismo, sì al culto per la tradizione nazionale italiana. Sì al fascismo universale, no al capitalismo di regime. Di fatto, lotterà tutta la vita per una rivoluzione diversa da quella storicamente realizzata. Semplificando: Ricci e L'Universale furono socialfascisti e nazionalpopolari. La resistenza dei vinti.

Per il resto, vale la pena leggere alcuni pezzi di Berto Ricci polemista, soprattutto gli articoli culturali, che non sembrano invecchiati. Esempi. Quello sulla stampa italiana (Arte fascista, giugno 1931): «I dieci decimi dei nostri corsivisti fanno paura: buona volontà, ottime intenzioni, ma assoluta inettitudine a seguire e commentare le vicende intellettuali e politiche della nazione. Le terze pagine formicolanti di pretenziose nullità, schizzetti d'impotenti e sedentari. La cronaca è rimasta al secolo scorso. La critica, dura d'orecchie adulatrice...». Quello sull'impegno e politica (Anniversario, gennaio 1932): «Crediamo che la misura della vitalità di una razza, dell'italiana specialmente, sia nelle fazioni. Nel tempio della Concordia cantano gli angioletti, ma il lupo sbadiglia».

O quello sullo stato della cultura (Invito agli editori italiani, agosto 1933): «Editori, vi sta a cuore la cultura italiana o il comicissimo premio Viareggio? Siete credenti o bottegai? Meno discorsi e più opere, meno nobilissimi intenti e più risultati, meno fascette e più voglia di lavorare».

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