Cultura e Spettacoli

La fatal Lucrezia

Figlia di Rodrigo, fu la donna più affascinante di casa Borgia

Una spada, due pilastri incastrati in un altar maggiore, un’elegia e un capello biondo oro. Oggetti, reliquie, parole che raccontano vite non comuni: bisogna interrogarli, ascoltarne le storie. Lo fa Ivan Cloulas, autore del libro su una delle famiglie simbolo del Rinascimento, I Borgia, di cui troveremo in edicola da domani la seconda parte, con il Giornale.
A palazzo Caetani, a Roma, la collezione del duca di Sermoneta include la spada da parata di Cesare Borgia. Sulla prima faccia - la guerra - sono incise le gesta dell’imperator romano, Cesare soggiogatore delle Gallie, fulmineo al guado del Rubicone, con i vinti che porgono offerte al toro, insegna araldica dei Borgia. La seconda - la pace - è ornata con scene della vita civile e delle industrie: sulla colonna commemorativa, circondata da artisti, si erge l’aquila romana; il caduceo di Mercurio ricorda i profitti del commercio; l’allegoria della concordia riceve l’omaggio dei cittadini. Quella lama è un film, impresso nel metallo. Registra le celebrazioni avvenute all’inizio del 1500, anno giubilare, alla presenza di un già malandato Alessandro VI: si festeggiava un primo culmine di Cesare, l’uno-due assestato prima a Imola e a Forlì, poi a Pesaro e a Rimini. Era il nucleo del suo innovativo regno di Romagna, forse gli albori di un disegno unitario sulla penisola. Poi, al terzo assalto, si sarebbero aggiunti Faenza e il paradiso di Urbino, rubato con la frode al retto duca, Guidobaldo di Montefeltro.
La Roma papalina riesumò la fanfara dei trionfi antichi: da piazza Navona al Vaticano, carri allegorici ispirati alle pitture mantovane del Mantegna inscenarono il kolossal delle vittorie di Giulio Cesare, matrice del nuovo eroe. Assente Vercingetorige in catene, ma pare che la crudele regia del Valentino prevedesse l’umiliazione di Caterina Sforza, contessa di Forlì, preda di guerra.
Capitano generale della Chiesa, alla testa di mercenari scelti, sulla lista paga vaticana (il forziere di pie offerte, svendita di cardinalati, confische a baroni riottosi e a ebrei mal convertiti) questo ragazzo che amava il velluto nero abbinato all’argento (anche gli zoccoli del suo cavallo ne erano ferrati), che galvanizzava il popolo battendo alla lotta i campioni romagnoli e improvvisando corride in San Pietro, che usava in politica l’omicidio e il terrore come beni di consumo ma dispensava, al bisogno, la clementia che lo fece rimpiangere dai suoi ex sudditi di Cesena, era pronto per diventare l’ideale di Machiavelli: un principe spregiudicato, sempre sul ring con la Fortuna. Che lo mandò al tappeto, alla morte di suo padre, il papa Borgia. Cadde in un’imboscata, a Viana, in Navarra. Della sua tomba di marmo, distrutta secoli dopo da un astioso cardinale che non ne sopportava il sentore di zolfo, restano pochi arabeschi di marmo, incastonati nell’altare della chiesa.
Sua sorella, Lucrezia, è l’altra protagonista dell’opera di Cloulas. Quando già è la splendida first lady di Ferrara, un’elegia innamorata, a firma Pietro Bembo, la ingioiella di classiche doti (quella reale, da sposa, inchiodò per quattro giorni gli intermediari al conteggio dei ducati d’oro): c’è da temere che un dio la rapisca in cielo, per farne un nuovo astro, tanto è dolce, colta, raffinata, intelligente. La cognata, Isabella d’Este, assolda spie per carpire i segreti del suo charme. Immenso, in questa donna, bestia di piacere, mercanzia di troni e di alcove, ansiosa di godere (tratto genetico del clan Borgia), sempre a galla tra vedovanze e divorzi, aborti e trepidazioni per figli assenti, estranei, tutt’una con gioielli, sete, tesori d’arte, feste, balli, dimore e guardaroba da favola, capace di reggere non solo città, ma la Chiesa intera, durante un’assenza del papa padre, e infine di siglare con il cilicio i suoi giorni, ritmati dalle gravidanze, dagli sposi imposti, dagli amanti impossibili.
Nei suoi bagagli, non solo profumi, ma Dante, Petrarca, i misticismi di santa Caterina. La Biblioteca nazionale di Parigi conserva un suo capello, con la chiarità dell’oro. Apparteneva a una ciocca, acclusa a una sua lettera d’amore.

Lo rubò qualcuno stregato dalla sua leggenda, modernità di vittima solitaria, orgia di sopravvivenza in un tempo di sregolatezze magnifiche.

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