Cultura e Spettacoli

La fattoria degli orrori del soldato George

Nei «Diari di guerra» dello scrittore il dolore per l’assurdità del conflitto E per i vincoli della ragion di stato...

Annota: «10 giugno 1940. Appena sentito, benché non sia sui giornali, che l’Italia ha dichiarato guerra. Le truppe alleate si stanno ritirando dalla Norvegia \. Si sta disintegrando tutto. Mi provoca fitte di sofferenza scrivere recensioni di libri in un periodo simile». E ancora: «7 settembre 1940. Ormai gli allarmi aerei sono così frequenti e durano così a lungo che la gente di solito non riesce a ricordare se in un dato momento c’è lo stato di emergenza o il cessato allarme. Il rumore di bombe e spari, a meno che non sia molto vicino, viene accettato come un sottofondo normale alla conversazione o al sonno. Churchill ha affermato che i raid aerei nel mese di agosto hanno causato 1075 morti. Anche se fosse vero, è chiara la volontà di minimizzare, perché nel numero sono incluse solo le vittime civili».
Cosa conferisce sempre alle parole di George Orwell quel timbro, quella lunghezza d’onda subito riconoscibile e schietta come la vibrazione del diapason? Forse è la sua honesty, il senso di sincerità intellettuale e coerenza morale, la repulsione nei confronti di ogni mistificazione sociale e politica. Nei Diari di guerra, scritti dal maggio ’40 all’agosto ’41 e tra marzo e novembre ’42, ora ritradotti in edizione integrale da Alessandra Sora (Mondadori, pagg. 396, euro 9,80), questa honesty l’induce a una verifica sia dei propri sentimenti sia di tutto quel che accade. «Ieri sera, E. \ e io abbiamo fatto un giro a piedi per Soho, per capire se i danni ai negozi italiani ecc. fossero davvero quelli riportati dalla stampa \. Per la maggior parte si erano affrettati a etichettarsi “British”. La drogheria Di Gennari era costellata di manifesti con sopra stampato “Questo esercizio è interamente inglese”».
Egli fa parte della Home Guard ed è di stanza a Greenwich, ma cerca di verificare con i propri occhi quante più cose può: «Paurosi incendi ai Docks e a Cheapside. Banca d’Inghilterra appena scalfita. Gravi danni a Holborn. Distrutto il cinema vicino a Madame Tussaud», senza talora eliminare del tutto un certo sense of humour: «Churchill, in visita alla zona bombardata vicino a Elephant and Castle, in un punto in cui si contavano venti case distrutte su ventidue, ha detto che “poteva andar peggio”». Il 3 luglio ’41, scrive: «Il migliore esempio della povertà morale e sentimentale dei nostri tempi viene dal fatto che tutti ci sentiamo più o meno vicini a Stalin. Il disgustoso assassino per il momento sta dalla nostra parte e pertanto abbiamo istantaneamente dimenticato le purghe e tutto il resto. Così sarebbe con Franco, con Mussolini ecc. se alla fine dovessero decidere di schierarsi con noi».
Tra sdegno e passione, tra disincanto e ingenuità politica, Orwell continua a testimoniare di quello che per Conrad era un drammatico, cosmico, dilaniante «codice d’onore», e per Orwell è un più modesto, quasi domestico, laico, codice dell’honesty. Ciò trova ancora migliore espressione in Il leone e l’unicorno, un saggio sull’«inglesità», scritto nello stesso periodo e pubblicato nel ’41, che compare ora per la prima volta in Italia insieme ai Diari. «Mentre scrivo, esseri umani altamente civilizzati mi stanno volando sopra la testa cercando di uccidermi. Non nutrono alcuna inimicizia verso di me come individuo, né io verso di loro \. Stanno solo facendo, come si dice, il loro dovere \. Non si riesce a capire il mondo moderno quale esso è se non si riconosce la forza preponderante del patriottismo, della lealtà nazionale». L’ineffabile candore con cui il rivoluzionario non marxista Orwell parla di patriottismo non può che sconcertare i suoi compagni socialisti. L’Inghilterra, egli dice, «è una famiglia in cui, a comandare, sono i membri sbagliati», e a bollare queste parole come tradimento non era tanto la questione su chi dovesse detenere il potere quanto un quietismo ignaro della lotta di classe internazionalista.
In Il leone e l’unicorno vi è l’insieme di valori che rischiamo di perdere, quelli che nel mostruoso apparato statale di 1984 governato dal Grande Fratello saranno perduti per sempre, come vi è anche lo stesso spirito della Fattoria degli animali, l’allegoria della rivoluzione tradita, che forse è ancora fattibile. La rivoluzione inglese auspicata da Orwell, al pari di altre rivoluzioni che non potevano prescindere da un loro carattere nazionale, è molto speciale: con tutta la sua ottimistica fiducia nella fondamentale «tolleranza» e «gentilezza» degli inglesi, nell’innato decoro della gente comune e nella crescita dei valori socialisti, per lui la rivoluzione doveva essere un processo e non un evento, un movimento di massa, non un colpo di stato.

Essa «avrà nazionalizzato l’industria, bilanciato i redditi, istituito un sistema scolastico non classista», e, benché egli si dichiari contento quando «le milizie rosse saranno alloggiate al Ritz», perché allora vorrà dire che l’Inghilterra «che mi hanno insegnato ad amare tanto tempo fa» avrà ritrovato la sua memoria, tutto questo dovrà avvenire, chissà come, nel «decoro» (la decency, suo termine prediletto) della gente comune, un decoro che è parte integrante dei valori morali del socialismo, valori che la teoria marxista aveva reso strumenti dell’oppressione di classe o dei mezzi di produzione, rendendosi non dissimile dal totalitarismo di destra.

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